Voleva un regno ma era contro la proprietà privata

A 23 anni brigò per ottenere la corona di Corsica. Girò le corti europee ma a Parigi, durante la Rivoluzione, fu l’unico italiano ad ottenere la cittadinanza onoraria francese

Fu l’italiano più internazionalmente conosciuto dell’ultimo ventennio del XVIII secolo. Tra un’avventura e l’altra, visse tutti gli avvenimenti della sua epoca, legandosi di amicizia con gli uomini più eminenti. Ma ebbe anche nemici più del demonio, al quale fu paragonato.
Nacque da famiglia comitale milanese di ceppo celtico. Il capostipite, Corano, sarebbe stato re di Scozia nel 501. Questa presunta discendenza coronata, eccitò la fantasia del Nostro che sognò a lungo un trono per sé. Scappò di casa a 17 anni per sfuggire alla madre, Marianna Belcredi, che lo voleva prete. Miscredente nato, preferì arruolarsi con gli austriaci nella guerra dei Sette anni. Girovagò nei Paesi tedeschi fino a Königsberg dove conobbe Kant.
A 23 anni concepì l’idea di creare un Regno della Corsica, con la Sardegna e l’isola d’Elba. Era il periodo in cui Pasquale Paoli cercava un re qualsiasi per la sua terra, pur di liberarla dal giogo genovese. Il giovanotto studiò un piano per aiutare i corsi a cacciare gli occupanti e farsi incoronare. Preparò una Costituzione progressista per il suo futuro Regno, tuttora oggetto di studio nelle università. Poi calcolò che erano necessari 25 cannoni di grande calibro, 25mila fucili e 25mila sciabole per armare i 30mila corsi atti alle armi. Restava il problema di trovare i tre milioni di scudi necessari per l’impresa e bussò alla porta del Gran Turco, andando a Costantinopoli. Trascorse un anno tra gli ottomani che, alla fine, risposero picche. Allora rinunciò alla Corsica con la stessa leggerezza con cui l’aveva desiderata. Prese un bastimento e sbarcò in Spagna. Ma il calcagno della Chiesa era troppo invadente perché il Paese potesse piacergli. «Qui - scrisse - è più conveniente assassinare un viandante sulla strada che rubare una spilla alla statua di un santo».
Passato in Portogallo, divenne braccio destro del dittatore, José de Carvalho, che poco dopo fece impiccare quattromila sudditi e strangolare sei ministri. Il nostro avventuriero, che in fondo era un brav’uomo di cultura illuminista, si disgustò e fece ritorno a Milano. Vi rimase il tempo di sposare la sorella ventenne a un settantenne, ma di gran nome, un Comneno erede del trono bizantino. Poi si trasferì a Vienna alla corte di Maria Teresa di cui, come milanese, era suddito. L’imperatrice lo prese a benvolere e gli affidò missioni diplomatiche. L’idillio cessò quando il ventisettenne le suggerì di usare più dolcezza in Lombardia, assicurando che «i milanesi erano incapaci di ribellarsi». La frase gli inimicò il primo ministro, Kaunitz, che aveva sempre detto il contrario alla sovrana per giustificare i propri rigori coi meneghini. Il Nostro finì in quarantena e nonostante l’amichevole difesa del poeta di corte, Pietro Metastasio, dovette rientrare in Milano.
Qui si legò a Cesare Beccaria e agli intellettuali del Caffè, rivelando doti di prim’ordine. Pubblicò Il vero dispotismo, notevole scritto contro la proprietà privata, «diritto barbaro e fatale». Non era però uomo di propositi fermi. Tre anni dopo, abbracciata la fisiocrazia, sostenne l’opposto nel saggio Le imposte secondo l’ordine della natura: la proprietà è l’architrave di una società felice. Intanto, nuovamente stufo di Milano, si era stabilito a Ginevra. Fece anche lui l’usuale pellegrinaggio nella vicina Ferney, dimora di Voltaire. Il patriarca si infatuò del trentunenne quando seppe della parentela col Comneno. «Lei è chiamato a grandi imprese», esclamò il filosofo e aggiunse: «Si metta al servizio di Caterina II, sollevi la Grecia contro i turchi e salga sul trono bizantino» promettendogli totale appoggio presso la sovrana russa, sua grande amica. Saggiamente l’altro, ammaestrato dalla vicenda corsa, lasciò sbollire gli entusiasmi del vecchio e non ne fece nulla.
Venti anni dopo, lo ritroviamo a Parigi, fan della Rivoluzione. Ebbe, unico italiano, la cittadinanza onoraria francese e da allora scrisse solo in quella lingua. Si fece una fama europea con le celeberrime Lettere ai sovrani, elogio della Francia ribelle contro i vecchi regimi. La violenza delle invettive gli inimicò tutte le corti. Da Maria Carolina d’Asburgo, regina di Napoli, si fece addirittura odiare. Nella Lettera al marito, Ferdinando IV di Borbone, aveva scritto: «Poiché, Sire, siete ignorante avete grande opinione della cultura della regina fatta di luoghi comuni, di cui fa l’uso più sciocco. Ma potrete voi stesso valutare la sua scemenza, osservando la rapidità con cui passa senza logica da un argomento all’altro... Se questa donna fosse solo libertina e pedante, non sarebbe che da disprezzare, ma essa versa al suo amante e ai suoi favoriti il sangue del vostro popolo... Ella inoltre, Sire, vi detesta». Maria Carolina non gli dette tregua e incaricò dei sicari di ucciderlo.
Scampato il pericolo e nauseato dagli eccessi rivoluzionari, l’ormai sessantenne si rifugiò nuovamente in Svizzera.

Trascorse in solitudine gli ultimi venti anni di vita scrivendo le sue Memorie. Era ormai un sopravvissuto. Precipitato nell’oblio dopo tanta fama, disse di sé: «Non valgo l’inchiostro che mi è servito per parlare di me».
Chi era?

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