Roma - Nel quartier generale veltroniano l’affondo di Fini sulla legge elettorale è piombato come un fulmine a ciel sereno. «Il leader di An vuole far saltare il dialogo», è la conclusione allarmata che ne traggono gli uomini più vicini al sindaco di Roma.
La reazione ufficiale viene affidata a Giorgio Tonini, che si dice «sconcertato» dalla «demonizzazione aggressiva» del Vassallum e bolla quello di Fini come un «fuoco di sbarramento sterile e inconcludente». Ma per capire perché la presa di posizione di Fini, che minaccia «ostruzionismo» contro il Vassallum, preoccupi così tanto il leader del Pd basta guardare le reazioni che subito piovono dalla sponda opposta dell’Unione, quella che si raccoglie attorno a Prodi. Applaudono i Verdi: «Difficile dar torto a Fini, quella legge elettorale è una truffa, elaborata su misura per Veltroni e Berlusconi», denuncia il capogruppo Bonelli. Esultano i socialisti: «Fini dimostra che la strada per mettere la camicia di forza all’Italia non è affatto spianata, ma irta di grossi ostacoli», annuncia Villetti. Diliberto si dice pronto ad allearsi «anche con il demonio», figurarsi con An. Ma sono soprattutto i prodiani a benedire l’altolà finiano: «È difficile negare i problemi che egli solleva», nota Franco Monaco.
La sponda di An era infatti quella che Prodi già da giorni sperava di trovare, per bloccare il count-down dell’intesa sulla nuova legge elettorale tra Pd e Forza Italia. Un count-down in fondo al quale il premier intravede (senza sbagliarsi troppo) la caduta in pochi mesi del suo esecutivo e la nascita di un governo «istituzionale» per le riforme, ipotesi apertamente affacciata più volte da Bertinotti, che di quell’intesa è pronubo interessato.
Il fattore tempo è determinante, spiega il veltroniano Peppino Caldarola: «Così Fini dà una mano a Prodi e ai cespugli dell’Unione. Dopo la Finanziaria, ci sono realisticamente due mesi per fare la riforma: se An decide l’ostruzionismo, non passerà nulla e si va al referendum. Grazie al quale il governo la sfanga e Fini conta di imporre di nuovo a Berlusconi la necessità di coalizzarsi coi vecchi alleati». Quella dell’ex vicepremier è dunque «la mossa del cavallo» che mette a rischio la strategia di gioco dei due dialoganti, uniti dal medesimo interesse: metter fine alla stagione del bipolarismo delle «coalizioni coatte» e rissose e aprire quella di un sostanziale bipartitismo.
Lo schema veltroniano prevedeva cinque giocatori: il Pd e Berlusconi, con la sponda di Rifondazione a sinistra e di An e della Lega a destra. Se Fini decide di passare alla squadra avversaria, lo schema dovrà essere rivisto. In fretta, perché nel frattempo Prodi lavora per durare ben oltre il referendum, come dimostrano i tentativi di ampliare i numeri in Senato: dall’operazione neo-Dc pilotata da Rovati, che sta tentando il senatore Udc Baccini (arrabbiato col suo partito che gli preferisce Ciocchetti come candidato alla provincia di Roma) al lavorio per far subentrare i senatori della Rosa nel pugno.
E tra loft e Campidoglio si affaccia il sospetto che la partita di Fini sia quella di «impedire qualsiasi riforma seria», e di giocare in proprio. Magari partendo da Roma. «Senza legge elettorale che rafforzi il partito che vince, la prossima sarà un’altra legislatura di transizione», osserva il rutelliano Giachetti.
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