WILLIAM GADDIS La «perizia» nel falsificare il mondo

Cinquant’anni fa usciva «The Recognitions», capostipite del romanzo postmoderno

Nel 1967, a Berkeley è appena scoppiata la rivoluzione studentesca, trasformando il fenomeno hippie in un argomento da rotocalco, mentre in Inghilterra l’Estate dell’Amore si trascina fino a quando i primi fiocchi di neve stendono un velo sulle foglie arrugginite di Hyde Park, e migliaia di ragazze in camicie optical, pantaloni a vita bassa e pellicce di coniglio continuano a sognare cieli di marmellata, fiori di cellofan e facchini di plastilina con cravatte di specchio.
Qui da noi, in Italia, i «capelloni» vestono ancora di nero, strimpellano alla chitarra le canzoni di De André e posano davanti ad un obiettivo inesistente, seduti sulle panchine o sulle scalinate degli atenei, compulsando avidamente Cent’anni di solitudine. Sospesa in una bolla di sapone che racchiude insieme Macondo e il Paese delle Meraviglie, la versione italica della «gioventù bellissima», ancora ignara di quanto accadrà a Parigi da lì a cinque mesi, non può restare affascinata da un romanzo di mille pagine dal titolo così grigio, Le perizie (The Recognitions), che Mondadori sta per ripubblicare nella collana «Nuovi Scrittori Stranieri». Ne è autore tale William Gaddis, newyorkese classe 1922; un oscuro correttore di bozze del New Yorker che negli anni Quaranta, dopo essere stato espulso da Harvard, aveva preso a girovagare furiosamente tra Sudamerica, Spagna, Italia e Nordafrica, «incinto di un libro» - come avrebbe detto Henry Miller - che nei successivi vent’anni diverrà la Bibbia degli scrittori massimalisti (o postmoderni) americani, da Barth a Pynchon, da Coover a Gass.
Eppure, se si guarda quel 1967 dalla lente caleidoscopica del flower power e della psichedelia, non si capisce come mai i giovani intellettuali italiani non abbiano saputo aprire quel libro dalla copertina seriosa (con un disegno di Bosch) e tuffarsi in una scrittura mirabolante che giostra con rara maestria una cinquantina di personaggi attraverso tre continenti. Ditemi voi se c’è qualcosa di più vicino alla visionarietà del tricheco-Lennon di questa frase: «Perduta: un’ora d’oro, tempestata di sessanta minuti di diamante». Da sola, essa brilla come un quarzo che scompone la luce nei colori di Sgt. Pepper’s...
Forse arrivava da noi fuori tempo massimo, Le perizie; che Gaddis pubblicò in America esattamente cinquant’anni fa, nel 1955. Dodici anni più tardi, mentre il libro usciva nella traduzione di Vincenzo Mantovani, John Barth parlava già di «letteratura dell’esaurimento»: se tutto è già stato scritto, l’unica possibilità rimasta allo scrittore è la parodia dei suoi grandi predecessori.
In questo senso alcuni hanno letto Le perizie: come un omaggio non troppo velato al ritratto dell’artista da giovane che Joyce fa di Stephen Dedalus. Ed in effetti, il protagonista del romanzo di Gaddis, Wyatt Gwyon, è il figlio di un pastore protestante che rifiuta di seguire le orme paterne per lanciarsi nell’avventura dell’arte; l’obiettivo è quello di ricercare con la pittura il significato e la forma del mondo: dipingere per trovare la Verità. Gwyon crede che quest’ultima risieda nella Bellezza, così come è stata interpretata dai maestri del passato; e dunque si applica a rifare i suoi modelli. Li riprodurrà con tale perizia che alcuni critici e collezionisti s’industrieranno a vendere le sue copie come originali. Gwyon, suo malgrado, diviene così un novello Pierre Menard, lo scrittore immaginato da Borges che attende all’opera ciclopica di produrre alcune pagine che coincidano - parola per parola e riga per riga - con quelle di due interi capitoli del Don Chisciotte.
Spostando il fuoco dell’ellissi da se stesso al fittizio plagiatore di maestri fiamminghi, Gaddis riesce contemporaneamente nei suoi due intenti: quello di dar prova della falsificabilità del mondo (un mondo che ricomprende pure l’arte esaurita e posticcia profetizzata da Barth) e, di contro, quello di sventagliare davanti ai nostri occhi una gigantesca ruota di pavone, dandoci un saggio definitivo d’erudizione e di stile, quale nemmeno l’allievo più promettente - Thomas Pynchon - saprà eguagliare. Le perizie è davvero un’opera-mondo, vasta come la geografia del cosmo (si va dal New England alla Spagna, da Parigi all’Italia: Viareggio, Assisi, Roma...), infinita come la storia degli uomini. Con una capacità mimetica superiore a quella dell’eroe del suo libro, Gaddis fa scorrere sotto il rumore dolcissimo della sua prosa la letteratura sapienzale da Aristotele a T.S. Eliot, il mito da Orfeo a Faust, fino a restituirci, «laicizzata», un’intera tradizione sacra che va dal cattolicesimo al calvinismo, passando oscuramente attraverso certi riti mitralici.
Per comprendere al tempo stesso la compiuta perfezione dello stile di Gaddis e la complessità allegorica della sua visione, basta leggere l’incipit, in cui viene rievocata oscuramente la White Goddess di Robert Graves: «Anche a Camilla erano piaciute le mascherate, quelle innocue dove la maschera si può gettare nel critico momento in cui si attribuisce una parvenza di realtà. Ma la processione su per il colle straniero, delimitata dai cipressi, sospinta dal monotono salmodiare del sacerdote e ritardata dalle soste alle quattordici stazioni della Croce (per non parlare del carro funebre in cui ella viaggiava, un bianco veicolo trainato da due cavalli che somigliava a una barocca bancarella di dolciumi), avrebbe forse turbato la timida espressione della sua anima, se fosse stata visibile».
Quando uscì, in America nel 1955 e in Italia nel 1967, Le perizie ebbe una fortuna critica decisamente insufficiente; ed ancora oggi, fra tutti i grandi romanzi americani del XX secolo, è quello meno letto e considerato. Parlarne nel 2005 è un azzardo, se è vero che il capriccioso scodinzolio della moda ha temporaneamente decretato, oltreoceano, il riaffermarsi del romanzo realistico a scapito del romance (pseudo)postmoderno. Proprio mentre in Italia, con colpevole ritardo, stiamo scoprendo Barth, Pynchon e i loro nipotini (come Foster Wallace), negli Stati Uniti è in auge la linea di discendenza che da Bellow passa per Roth fino ad arrivare a Paul Auster e ad Eugenides.
Eppure ho il sospetto che quando fra mille anni vorrà leggere una saga famigliare, il pronipote dell’Uomo attiverà il microchip su cui è stato registrato I Buddenbrok, non curandosi affatto del parentame di Augie March ed Alex Portnoy. E se ancora avrà un senso rievocare quella sciagurata illusione che nel secolo scorso andava sotto il nome di Great American Novel, il nostro Uomo del Futuro dovrà necessariamente scegliere fra tre titoli: Moby Dick, L’arcobaleno della gravità e, appunto, Le perizie (sarà un caso, ma questi tre romanzi «americani» sono ambientati uno in mare aperto, e gli altri due, in gran parte, in Europa).

«Se c’era stato un sogno - scrive Gaddis a pagina 701 della vecchia edizione mondadoriana di Le perizie - era tornato donde era venuto, a rinnovare il materiale scenico, probabilmente per essere rifuso, forse riscritto, per ricevere la nuova piega necessaria alla sua piena riuscita, a renderlo memorabile al pubblico e accettabile al censore, tutto questo, ma restano il solito vecchio dubbio del regista, il solito produttore, in attesa di mascherare le solite oscenità davanti al solito pubblico riluttante, in attesa, ancora, del primo sipario del sonno».

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