I più, i soliti saccenti della domenica, sentenzieranno che la colpa di Jerry Yang, disarcionato dalla poltrona di comando di Yahoo!, gioiello del Web da lui co-creato nel '94 insieme con l'amico David Filo, sia stata quella di aver voluto troppo. Finendo così - come recita il proverbio - per stringere un bel nulla. Quel che è peggio, facendo incavolare di brutto gli azionisti. Altri critici, più buoni, gli concederanno l'attenuante di aver sbagliato sì, pur se unicamente per eccesso d'amore nei confronti della sua creatura.
Ma forse, a ben guardare, la brusca fine di questa vicenda umana e aziendale si spiega con una banale dimenticanza. Quella di una regola rispettata peraltro dagli stessi due cervelloni informatici, Yang e Filo, agli inizi della loro avventura, quando pensarono bene di delegare la gestione a manager navigati. Quella regola, non scritta, ma inviolabile per la pur gracile morale degli squali della finanza, recita infatti più o meno così: «Tenete i geni lontani dai soldi e dalle decisioni. Farebbero danni terribili». Così è successo. Perché l'esercizio di quell'avidità che il finanziere Gordon Gekko - alias Michael Douglas, nel film Wall Street - definiva «giusta» in quanto «chiarifica, penetra e cattura l'essenza dello spirito evolutivo», è un mestiere che va lasciato appunto agli squali. Non certo ai poeti delle idee, a quelli che vengono definiti - una volta era un complimento - visionary men. Abbandonato infatti il suo ruolo naturale di direttore della strategia tecnologica, Yang era salito lo scorso anno sulla poltrona di Ceo, ovvero di amministratore delegato di quell'ex aziendina studentesca che, affidata a manager di ben altra pasta, era cresciuta fino a 7 miliardi di dollari di fatturato, portando gli iniziali 49 impiegati a 14.300 addetti sparsi in giro per il mondo.
Così, era andata a finire che l'ex studente taiwanese (naturalizzato americano) era volato in quei panni per lui troppo stretti fino a Redmond, sobborgo di Seattle, per vedersela faccia a faccia non proprio con un pezzo di pane, bensì con un certo signor Steve Ballmer, diventato numero uno della Microsoft dopo la scelta del fondatore Bill Gates di ritirarsi dagli affari e dedicarsi alle attività benefiche. Il primo febbraio, infatti, il colosso del software aveva lanciato un'offerta pubblica di acquisto (Opa) da 44,6 miliardi di dollari sul motore di ricerca. Per gli azionisti di Yahoo!, quei 31 dollari ad azione avrebbero significato un premio del 62% rispetto ai valori borsistici del 31 gennaio. C'era insomma di che lanciare un omofono e più che giustificabile «Yahoo!» di gioia.
Manco per niente. Yang, a nome del suo consiglio di amministrazione, aveva taiwanesamente sorriso, dicendo tuttavia di no, che l'offerta era troppo bassa rispetto al valore della sua creatura. Un seccatissimo Ballmer - grande manager e proprio per questo non certo una mammola - aveva accettato di alzare l'offerta di altri 5 miliardi di dollari, convinto che Yang, di fronte a una simile cifra, avrebbe capitolato. E invece, per la seconda volta, si era sentito rispondere un bel «No». Come dire: «Un accidente, che vendiamo a voi!». Da quel giorno, dall'abbandono delle trattative e dalla successiva rinuncia manifestata da Microsoft anche riguardo all'ipotesi di un'eventuale scalata ostile che si sarebbe potuta rivelare troppo onerosa, si era diffuso un altro genere di «accidenti». Quello che aveva cominciato a colpire le coronarie degli azionisti Yahoo, da quel momento in poi impotenti testimoni della lenta, ma inarrestabile, perdita di valore dei loro titoli, passati da quei 31 dollari ciascuno messi sul piatto da Ballmer a febbraio, ai poco più di 10 dollari di due giorni fa.
È vero che di mezzo, a peggiorare la situazione, ci si erano messi anche la crisi e il crollo globale delle Borse. Ma è altrettanto certo che un altro genere di «accidenti», questi più marcatamente sonori e perlopiù irriferibili, avevano parallelamente cominciato a piovere su Jerry Yang. Fino alla sua defenestrazione, decisa l'altro ieri dai vertici aziendali e accolta da Wall Street con un eloquente apprezzamento del 4,42% del titolo.
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