Zimerman, prezioso colloquio con Beethoven

Lorenzo Arruga

da Milano

Krystian Zimerman arriva a notte fonda al Conservatorio di Milano, dove un fido gli apre la porta ed altri fidi scaricano e trasportano nella grande Sala Verdi il suo pianoforte. Non ne vuole altri. Poi manda tutti via, e si mette ad accordarlo in solitudine. Accordarsi da solo lo strumento era abitudine dei musicisti barocchi, di solito ora tocca agli specialisti. Quanto al volere ovunque gelosamente il proprio pianoforte, lo facevano anche altri Grandi della tastiera: di Horowitz c’è il filmato con la gru che lo preleva dal grattacielo dove aveva l’appartamento; di Benedetti Michelangeli si sa che lo mandava ad acclimatarsi nel palcoscenico dove avrebbe suonato già qualche giorno prima; anzi, si racconta che a Bologna una volta che c’eran dei balletti fosse stata scoperta la sarta che ci stirava sopra i costumi.
Ad ogni buon conto, Zimerman issa una tenda e nasconde il suo rendendolo irraggiungibile.
Poi al concerto l’irraggiungibile è lui. Da non credere. Il suono, il fraseggio, le idee. Ad onta d’un disturbo al seggiolino cigolante nel primo tempo, gioia piena dell’orecchio e dell’intelligenza, ebbrezza dell’anima. Parte con la Patetica di Beethoven: un’introduzione come un drammatico, dilatato interrogativo, che è insieme la voce inconfondibile di Beethoven, poi via a capofitto. Questa sonata ha un Adagio con una delle melodie più intense e cattivanti della storia, e lui la esegue come se intonasse un severo corale luterano, e come se potesse innalzarlo a canto senz’aggettivi.
Poi tocca alla sonata Aurora, e qui Beethoven si costruisce e si sgretola sotto le sue mani con una fisicità mai sentita, e la bellezza dell’ultimo tema prende un’innocenza di natura che fa coincidere pensiero, costruzione e contemplazione della bellezza, come un gesto comune di fiducia nell’universo.
Parole un po’ pompose, vero? Eh, i suoni non si possono tradurre, dovevate esserci. Ed ascoltare nella seconda parte Chopin: prima due rapide mazurke, come un sintonizzarci nella sua terra, poi la Sonata in Si minore. Qui il tocco, la libertà del fraseggio, la fragranza delle idee struggenti e librate ci ha condotti in un percorso spettacolare ma come accompagnato da sentimenti segreti: nel virtuosismo stupefacente delle mani che da vedere sembrano quasi sfiorare i tasti e producono invece tutta la ricchezza dei suoni, la memoria d’un passo di danza, la pienezza d’un lavoro smisurato, la conquista d’una luce cercata momento per momento e dell’affetto di tutti noi, esploso in un applauso lungo e riconoscente.
Chi ascolta le esecuzioni dei grandi interpreti, dopo concerti come questo ascoltato alle Serate Musicali porta dentro a sé la certezza di un bene prezioso e preciso ricevuto e insieme anche, quasi contraddittoriamente, la nostalgia per qualcosa di inafferrabile ed irripetibile, che non si riesce a memorizzare pienamente. Ma con Zimerman succede anche un’altra cosa.
Tante volte, leggendo gli spartiti, abbiamo il senso di una quantità di accadimenti che le esecuzioni non rivelano quasi mai.
Ci sono i pianisti che strutturano, quelli che semplificano, quelli che insegnano, quelli che ipnotizzano, quelli che trascinano, e però come se ci consegnassero tutto in un percorso definito, in una prospettiva di cui prender atto.
Con Zimerman succedono invece innumerevoli cose: la sua coerenza sta nell’avere e proporre la forza di scoprirle ed accoglierle tutte.

Una sua interpretazione cresce nei giorni successivi all’ascolto, quando la meraviglia di tanta bravura lascia il posto al colloquio diretto con l’autore interpretato; e questa volta è come se continuassimo ad ascoltare antiche e nuove parole che Beethoven e Chopin stanno dicendo a Zimerman e a tutti noi.

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