Letteratura

Così Calvino ha tradito la letteratura italiana

La sua scrittura neutra, traducibile in tutto il mondo, ha messo in ombra molti grandi. E non lascia eredi

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Ora che il 15 ottobre del 2023 se n'è ito (andato via) per sempre; adesso che i cantori del centenario della nascita del Pontefice Massimo delle lettere della seconda metà del Novecento si sono sgolati in superlativi; insomma, oggi che Italo Calvino è fernuto (finito), ma in realtà vivo e vegeto letterariamente, trovo l'umore adatto per scriverne.

Intanto fa ridere la favoletta delle poesie da imparare a memoria. La stessa mia maestra ce ne bacchettava una a settimana. Durissima è invece la posizione di Calvino che, in sostanza, aspetta la morte di Fenoglio per scrivere che Una questione privata «è il romanzo che tutti avevamo sognato»; «il libro che la nostra generazione voleva fare». In realtà, Calvino, compie una operazione ideologico-culturale che deciderà le sorti di tanti scrittori italiani, tracciando con i suoi romanzi lo sviluppo stesso della lingua italiana.

Il Gruppo della Neo-Avanguardia aveva caldeggiato la morte del romanzo. Al rogo erano finiti Bassani, Cassola... E Umberto Eco, loro compagno di strada, affermava che era stata la televisione a unificare la nostra lingua. Infine, quando il lavoro era stato chiuso, il grande semiologo in polemica con Pier Paolo Pasolini a proposito del Cinema di Poesia, scrive un best seller mondiale: Il nome della rosa. Che Alberto Moravia si affretterà a giudicare: «È un romanzo comunicativo. I romanzi veri devono essere espressivi». Poca roba vista a posteriori. La combriccola del 63 (con eccezioni critiche e poetiche di valore: Angelo Guglielmi, Alfredo Giuliani - grandissimo e ossessivo saggista -, Pagliarani con La ragazza Carla), aveva fatto tackle ideologico, non aveva la forza per dirottare la lingua italiana nel regno globale della comunicazione, distruggendo i grandi scrittori provinciali, quelli che chiamo asintattici, in primo luogo.

Italo Calvino, al contrario, inventando una lingua neutra, facilmente traducibile, volante, ariosteca (perdonatemi, non ho trovato un altro sinonimo), si è lanciato nel mondo da «primo della classe», come diceva di lui lo stesso Moravia. Così Curzio Malaparte (ora se ne dice un gran bene!), era fascista e dunque a cuccia; Giuseppe Berto, idem, anche se Il cielo è rosso è uno dei romanzi fondanti del Novecento. Per non parlare di Tommaso Landolfi, arcaista, personaggio, giocatore d'azzardo e dissipatore dei terreni di Pico Farnese; anche se Calvino nel 1982 sceglierà Le più belle pagine di Tommaso Landolfi. Alla presentazione mi trovavo lì, timido e impacciato. Conduceva Walter Pedullà; gli altri relatori erano: Geno Pampaloni, Moravia che disse di Landolfi: «È uno scrittore difficile. Me lo ricordo quando scendeva a Roma con la sua eleganza un po' stropicciata...». Io aggiungo: eleganza da dandy, uomo bellissimo che coincide con il ritratto dell'etrusco che ne fa Malaparte: «Fronte alta, naso diritto, labbra serrate». E metteteci il cappello. Ho sempre sperato di poterlo indossare come lui e mio nonno. E così è accaduto. Oltre ai citati, al tavolo dei presentatori sedevano: Franco Cordelli e a un certo punto uscì fuori Vincenzo Cerami con una camicia a scacchi e occhiali dalla montatura nera. Aveva guidato l'auto per accompagnare Moravia.

Dicevamo che la strategia di Italo Calvino spazza via o relega nell'ombra i grandi scrittori dei tanti regni italiani. Tocca anche a Luciano Bianciardi, il vulcanico grossetano che dopo una riunione rivoluzionaria con Feltrinelli non facendocela più si alzò e si avviò a uscire pensando bene di lasciare appeso il suo straccio di cappotto all'appendiabiti, per indossare l'impeccabile cammello di Giangiacomo che non fiatò (questo me lo raccontò il grande Evaldo Violo, direttore della Bur Rizzoli).

E vogliamo citare gli scansati: Bilenchi (Il gelo è un romanzo che ti gela); Piovene (aristocratico); Delfini (lunatico); Anna Maria Ortese (obliata); Tobino (lo scrittore dei matti quando L'angelo del Liponard non è inferiore all'anima catramosa di un Conrad). Ma Italo Calvino ha vinto. Ha vinto con la sua lingua neutra e traducibile in mille lingue, addirittura sulla vertebrale (lasciamo indietro Boccaccio e Machiavelli) che da Verga passava a d'Annunzio (Le novelle della Pescara offrono dono al grande catanese al quale si baciava la mano). E da lì (vado a braccio) Guido Cavani (Zebio Còtal - ne scriverò presto - romanzo della ferocia appenninica, garfagnina; comunque folgorato da Pasolini). E comunque il grande tradimento che Italo Calvino ha perpetrato alla nostra lingua e letteratura è stato quello di sotterrare, appunto: Verga, Tozzi, Rea... In sostanza l'armatura espressiva che partiva da Dante.

Calvino non lascia eredi. Appare poi il buon Daniele Del Giudice; pubblica Andrea De Carlo... Però Silvio D'Arzo per decenni è un ragazzotto delle lettere.

E Una questione privata resta il bacio di Giuda.

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