"Le grandi famiglie milanesi? Sono sparite. E va bene così"

Imprenditore, è figlio di Vincenzo Maranghi, per molti anni numero uno di Mediobanca e delfino di Enrico Cuccia: "La città non ha perso i suoi talenti, ma deve recuperare la coscienza di ciò che può fare"

"Le grandi famiglie milanesi? Sono sparite. E va bene così"

Piero Maranghi, classe 1969, di mestiere fa l'imprenditore. Un imprenditore eclettico, e, quel che conta, rigorosamente Made in Milano . Il suo quartier generale occupa l'area più chic della città, quella compresa fra la quattrocentesca Casa Atellani, dove è nato e cresciuto, a un soffio dal Cenacolo vinciano, e Piazza della Scala. Qui si concentrano le sue attività, si va dalla ristorazione all'editoria, fino alla tv.

Si parte da quattro ristoranti, tra cui due giapponesi, più La Brisa e Cucina del Toro , quindi l'azienda di catering Serena Barbieri : il tutto per un giro d'affari di 12 milioni. Maranghi è poi editore televisivo, patron di Sky Classica HD , unico canale tv dedicato alla musica colta. Infine è direttore di Skira Classica , concessionaria del Teatro alla Scala per la commercializzazione di cd, dvd, libri e gestore del bookshop del teatro.

L'albero genealogico di Maranghi è impegnativo. Si parte dal bisnonno, l'architetto Piero Portaluppi, e si arriva a papà Vincenzo, il banchiere delfino di Cuccia, amministratore delegato di Mediobanca. Per lui si preannunciano mesi intensi; il 20 settembre ha presentato il primo dei quattro film attesi entro il 2016 che spazieranno sui temi diversi: Leonardo da Vinci, la Scala, il ballerino Roberto Bolle e Portaluppi. A chiudere sarà poi un cartoon , Il pilota .

A quanto pare è spettato a lei girare il primo film sulla Scala.

«In effetti questo docufilm colma un vuoto. Mancava, a livello di video, una storia completa del teatro, dalla fondazione ai giorni nostri. C'erano solo medaglioni dedicati ad artisti, a spettacoli o a determinate fasi storiche. Noi abbiamo ricostruito tutta la parabola del teatro in 90 minuti. E non è stato semplice condensare qualche secolo in un'ora e mezza. I registi, Luca Lucini e Luca Bigazzi, propongono scene di fiction, immagini d'archivio, parecchie provenienti dall'istituto Luce. Ci sono personaggi di invenzione, come il concierge dell'hotel dove soggiornava Giuseppe Verdi, e i loro percorsi si incrociano con testimonianze vive e recenti degli ultimi protagonisti, da Riccardo Chailly a Daniel Barenboim, Placido Domingo, Leo Nucci... C'è il dietro le quinte, il foyer, uno spaccato completo. Vogliamo raccontare un luogo che è qualcosa di più di un semplice teatro, nella Scala si identifica la città stessa. Dopo l'anteprima del 20, in Scala, il film andrà in onda su Rai Arte e poi nei cinema».

Quindi sarà a volta di Leonardo da Vinci. Da quale angolo lo riprendete?

«Tentiamo di ricostruire la straordinaria vicenda umana di questo genio concentrandoci sul periodo milanese. Esploriamo i luoghi leonardeschi della città, a partire dalla Vigna nella Casa degli Atellani, fino al Castello Sforzesco...».

Chi interpreterà Leonardo?

«Leonardo non si vedrà, dovrebbe esserci una voce narrante che legge i suoi documenti. Si vedranno però personaggi storici come Raffaello, Bramante, Beatrice d'Este, Ludovico il Moro...».

Tempi?

«Nei cinema a fine gennaio e di seguito in onda su Raitre. Poi, guardi, di idee in testa ne avrei tante».

Per esempio?

«Mi piacerebbe ricostruire il funerale di Ludovico il Moro. Penso a una sorta di spettacolo coreografico. Ne avevo parlato anche in Comune, però non se ne è fatto nulla».

Arriviamo al documentario sull'architetto Piero Portaluppi. Non deve essere facile ricostruire la storia di un personaggio della propria famiglia. Come si è avvicinato al bisnonno?

«Ho mediato fra memoria familiare, per definizione agiografica e piena di omissis, e quella al limite della brutalità del mondo scientifico milanese. Credo di aver raggiunto un certo equilibrio fra i due estremi. Portaluppi aveva una leggerezza al limite del cattivo gusto, che però è sempre rimasta cifra di arte elegante. Vorrei che emergesse proprio questo, il suo danzare sulle cose, questa sorta di distacco, forse dettato da una timidezza da dissimulare».

Un progetto ancora più originale è invece il cartoon Il pilota che ha come filo conduttore la musica classica.

«Un bambino, Max, ha come compagno d'avventura il direttore d'orchestra Daniel Barenboim. Sono 52 puntate da 11 minuti, girate per Rai, tv francese e tv tedesca. Si tratta di cartoni animati d'intrattenimento ma con un taglio educativo. In ogni puntata si spiega un elemento della musica, può essere il ritmo, l'armonia, la melodia... Lo stiamo curando nei minimi particolari. Per esempio, c'è una perfetta sincronia fra il movimento delle dita di Barenboim al pianoforte e la musica che si ascolta. È un cartone animato, ma il personaggio di Barenboim non dice nulla che non direbbe il Barenboim in carne e ossa. In compenso lo vedremo perfino giocare a pallone».

Da milanese, che giudizio dà di Expo?

«Expo è un'avventura straordinaria, una sfida vinta dalla città o almeno da chi ci ha creduto, dei corvi non mi interessa parlare. Certo. Se ci si aspettava di poter proporre qualsiasi cosa alle orde di visitatori arrivate con la piena, è stato un grave errore. La gente sta rispondendo alle offerte ben strutturate. Non basta riempire i palinsesti».

Le piace la Milano degli ultimi tempi?

«È una città che merita di avere una classe dirigente consapevole. Da 25 anni tenta di ritrovare la sua leadership senza riuscirci. Non ha perso i suoi talenti, ma ha perso consapevolezza di sé. Deve smetterla di autoflagellarsi, deve liberare le forze e credere in se stessa. Quanto al tema della legalità, va bene porsi questo problema, ma non può diventare il fine».

Nel frattempo gli stranieri si comprano interi quartieri della città. Dall'estero si investe, ma le grandi famiglie di Milano, quelle della Prima della Scala tanto per intenderci, che fine hanno fatto?

«Quello che accade è coerente con il fenomeno di un'Italia in vendita. Il caso Parmalat è eclatante, è indice di una gestione scellerata, non è possibile che nel mondo lo scaffale italiano venga acquistato dai francesi. Quanto alle famiglie di Milano, cosa vuole che le dica... non ci sono più, e francamente non mi sembra una grande perdita».

Fino a poche settimane fa, lei è stato il candidato eccellente alla sovrintendenza dell'Arena di Verona. È un progetto definitivamente sfumato?

«È stato un matrimonio non consumato nei tempi previsti. Oggi tendo a escludere tutto, doveva succedere in quel momento. Quando l'attuale sovrintendente, Francesco Girondini, pensò di lasciare la carica, io mi candidai. Su 37 candidati rimasero due nomi, tra cui il mio. Poi il sindaco, anche per vicende sue, ha voluto orientarsi su una scelta interna alla città».

Cosa avrebbe introdotto in un Festival che fa di Verona la quarta città turistica d'Italia?

«Da non veronese, avrei potuto portare maggiore consapevolezza sul ruolo del Festival, rimarcando l'importanza sociale ma anche economica della rassegna. L'Arena è il luogo dove in tanti inciampano per la prima volta nell'Opera, è un qualcosa di unico e forse questo non è del tutto percepito».

Che difficoltà ha l'imprenditore culturale rispetto a chi opera in altri settori?

«Diciamo che è il mondo dell'imprenditoria in generale a soffrire. In questi anni molti imprenditori hanno passato più tempo a occuparsi di debiti, di banche, che a “imprendere”. Sono anni difficili che in me hanno sviluppato due sentimenti: un crescente legame con la comunità di persone con cui lavoro, in tutto 70 persone, e il distacco crescente dall'idea di profitto e dai beni materiali. Dopo i miei quattro figli, c'è il mio lavoro».

A proposito di famiglia, lei porta un cognome impegnativo.

«Sono il quartogenito di una famiglia numerosa. Questo ha comportato vantaggi e svantaggi. Lo svantaggio numero uno è quello di essere stato picchiato a dismisura da Maurizio, il fratello maggiore, che peraltro adoro. Quando nasci per ultimo non vieni praticamente percepito dai genitori. Credo di essere andato a scuola indossando le gonne delle sorelle. In compenso, non mi è toccato portare sulle spalle il peso dei fatali e inevitabili scompensi familiari; a differenza dei primogeniti non ho subito gli errori genitoriali che facciamo coi figli, io per primo».

Il ricordo più vivo di papà Vincenzo...

«Ne ho uno, che però non confesso neanche sotto tortura. Ricordo piacevolmente i momenti di pesca. Una volta mi portò fino in Norvegia a pescare il merluzzo».

Nostalgia?

«Diciamo che mi piacerebbe tanto pescare con lui e mio figlio Giorgio, che tra l'altro, proprio per pescare, mi tira giù dal letto alle 5 del mattino».

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