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Addio al «diamante pazzo» che inventò i Pink Floyd

Debuttò nel 1946. Il suo film migliore «La sete del potere» insieme con William Holden

Cesare G. Romana

A ben guardare, la sua morte non dovrebbe fare notizia: Syd Barrett era defunto, di fatto, all’alba degli anni Settanta, quando, lasciati i Pink Floyd, aveva deciso d’uscire da un mondo che non capiva. Poi ha dedicato il suo tempo residuo, quasi quarant’anni, ad annullarsi: solo come uno stilita, perduto nel gorgo della follia, straniero al suo tempo e perfino alla sua gloria. Un’immagine recente ci mostra un uomo calvo, grigiastro, il ventre gonfio, ripreso a tradimento davanti a un’edicola. I calzoni mai stirati, la camicia stazzonata, lo sguardo che narra un’assorta mitezza, senza nulla trovare su cui fissarsi.
Di Barrett sopravviveva, semmai, il ricordo: affidato alle enciclopedie del rock e agli omaggi degli ex compagni, che lo battezzarono «diamante pazzo» ricordandolo ancora in Wish you were here. Quanto a lui, ai pochi che ancora riuscivano a parlargli, rispondeva: «I Pink Floyd? Non so chi siano». Al cognato che gli mostrava una chitarra, anni fa, rispose afferrando lo strumento, tentando qualche accordo e poi frantumandolo a terra. Il parente notò l’imperizia di quelle note, come se Syd avesse rimosso da sé, puntigliosamente, ogni traccia di genialità: altro che i glissati languorosi di Late night, i singulti liberty di Terrapin, i colori umbratili di Golden hair, lanciati di là dallo spazio. Altro che la sua musica, che aveva segnato un’epoca: onirica, smarrita nelle vastità dell’inconscio, tortuosamente affabulatoria. Irrigata dal genio e dismessa come un abito vecchio, quando la sbilenca lucidità di Syd aveva ceduto ai labirinti della schizofrenia, e la sua bellezza da arcangelo - la linea sottile, i capelli ventosi, gli occhi nerissimi - s’era arresa a una vecchiezza precoce.
Rifiutati gli osanna e la vampa dei riflettori, Barrett scelse un tramonto infinito: anni stesi sul letto, a guardare partite in tivù, fumare, leggere, ascoltare musica classica. O spesi a scandire i suoi incubi, su tele che a nessuno fu mai permesso vedere. Aveva poco più di trent’anni, Syd, quando sulla sua vicenda calò il crepuscolo. Era nato a Cambridge nel ’46, quarto dei cinque figli d’un medico. Aveva debuttato scrivendo Arnold Layne, storia d’un maniaco che ruba biancheria femminile per travestirsene. Poi, col rock, un’utopia: creare una musica del dopodomani, rubata al subconscio, figlia del sogno e inquilina del cosmo. L’utopia di diventare lo Stravinskij o il Varèse d’un pop lanciato di là dai propri confini. E già annunciata nell’adolescenza: il Bel Danubio blu suonato a quattro mani con la sorella Rosemary, brani di Chuck Berry trasformati in sinfonie stralunate. E dipinti d’un surrealismo assillato, aiuole i cui fiori erano ragni, indumenti inzuppati di rosso e incollati alla tela, volti dalla cui fronte erompeva un treno. Il tutto aiutato dall’Lsd, dai dettami d’una setta Sikh e da un imperativo: «Basta regole».
L’incontro con i Pink Floyd nacque dalla comunanza d’intenti. Il debutto, al Marquee, fu in carattere: Donovan intervenne vestito da Cleopatra, una ragazza suonò Bach su un ritmo di rock, un inserviente, in costume da ammiraglio, scagliò sul pubblico giunchiglie e bolle di sapone. Titolo: «Rilassamento dell’Età Spaziale», invito esteso a «poeti, americani, omosessuali, clown, assassini, politici e ragazze indescrivibili». Il mito dilagò, il trance psichedelico di The piper at the ates of dawn stregò milioni di giovani, l’acido stregò la mente di Barrett, la scisse e rese impossibile, per i Pink Floyd, restare in sintonia con lui. Fu così che nell’aprile ’68, lasciando a metà la lavorazione di A saucerful of secrets, Syd uscì dal gruppo.

Soggiornò in manicomio, poi abitò un sottoscala dai pavimenti coperti d’escrementi e giornali, tentò concerti disastrosi, pubblicò The Madcap laughs e Barrett, album inarticolati e geniali. Fino al ritiro e alla livida sopravvivenza, agevolata da una pensione d’invalidità, immemore d’una gloria ripudiata.

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