C'è un tempo per camminare ed uno per non farlo. C'è un tempo per scalare e uno per immergersi dentro noi stessi. Ai tempi del coronavirus anche l'alpinismo si è fermato. «Ma l'esplorazione prosegue nella nostra fantasia». Ne è convinto Hervé Barmasse che, nelle settimane del lockdown, ha prima dovuto fare e disfare, almeno un paio di volte, il suo zaino già pronto a nuove avventure, poi adeguare i suoi progetti.
Plank, addominali, allenamento. Tutto in casa: il Cervino, che è anche la sua «gran becca», alla finestra; le bimbe che giocano intorno al papà. Barmasse, anche così, ha ingaggiato una via molta ardua, quella del cambio di prospettive: «Anche prima del virus, l'alpinismo era in crisi, in cerca di identità, ma soprattutto di idee nuove». Litigi, colpi di scena, egoismi, record e cordate: all'epoca, forse troppo social dell'esplorazione d'alta quota, certi alpinisti sembrano prime donne sul palco, piuttosto che al campo base: «Non è il mondo romantico che sognavo da ragazzo, ma ne faccio parte e spero di dare un contributo al cambiamento».
A 42 anni, lui è un fiero votoren, della Valtournanche, figlio di guida alpina, nipote e pronipote di guida alpina. Guai, però, a chiamarlo predestinato: da ragazzo si scapicollava a 100 km all'ora solo all'ingiù, nelle gare di coppa del mondo di sci, che poi ha dovuto abbandonare troppo presto. Due ginocchia ridotte malissimo: «A 20 anni somigliavo più ad un quarantenne malato o a un ottantenne sano», racconta nel suo primo libro, La montagna dentro. La discesa non è stata più un'opzione e lentamente il bell'Hervé si è messo a salire. In cima al suo «primo Cervino», papà gli scattò una foto, accanto alla celebre croce di vetta. E oggi, anche grazie a quella prima salita col babbo, Barmasse è uno dei più raffinati interpreti dell'alpinismo moderno. All'attivo ha numerose vie nuove, spesso invernali, spesso in solitaria, su Cervino, Grandes Murailles, pizzo Badile, in Patagonia; in Pakistan ha scalato una serie di vette inviolate, in Himalaya gli 8.027 metri dello Shisha Pangma. Oltre al libro, due lungometraggi e la televisione dove spesso racconta la bellezza delle crode. Questa primavera era pronto per il suo secondo Ottomila. Aveva scelto il Cho Oyu, ma a modo suo: via nuova, stile «pulito» che significa «alpino» per davvero. Vai e torni senza lasciare nemmeno una carta sporca in quota.
E invece è arrivato il Corona virus, prima in Cina, poi da noi «Già prima della pandemia i cinesi sembravano non volere rilasciare permessi a europei che volessero aprire una via nuova sulle cime del Tibet. Quindi abbiamo modificato una prima volta il nostro progetto, iniziato già in autunno con un periodo di training in Himalaya, nella zona del Chamlang».
Qual era il piano B?
«Abbiamo puntato sul Nepal: il mio compagno di cordata, David Goettler, con cui ho già condiviso diverse salite, fra cui proprio lo Shisha Pangma, si trovava a Kathmandu, ma progressivamente abbiamo compreso la difficoltà della situazione, a partire dalla logistica».
È dura abbandonare un'impresa prima ancora di iniziarla?
«Bisogna mettere da parte aspirazioni ed ego, pensare alla collettività: immaginate che cosa può accadere in Nepal, paese ben diverso dal nostro dal punto di vista delle strutture sanitarie. Tutti avremo dei danni economici da questo lockdown, ma non capisco trekker e alpinisti che si lamentano: non c'è denaro che valga una vita».
Ci sarà un piano C?
«Certo. Sarà in Italia, appena la situazione lo consentirà. Ho sempre sostenuto l'alpinismo a km zero: favorisce l'economia e combatte l'inquinamento!».
Il 2020 è stato un inverno strano, anche prima del virus: nessun Ottomila scalato. La stupisce?
«Mi stupisce semmai che nessun Ottomila d'inverno sia fino a oggi stato scalato in modo pulito, senza impatto per l'ambiente. Sono grandissimi gli alpinisti che hanno realizzato, in passato come di recente, le prime salite invernali ai giganti dell'Himalaya. Si tratta di imprese infinitamente più complesse di una qualunque spedizione estiva. Eppure sono tutte storie che mirano al dove e alla vetta e meno al come, al modo, cioè, di raggiungerla. Questo mi spiace».
Il K2, in particolare, è rimasto l'ultimo ottomila ancora inviolato in inverno: perché non ci fa un pensierino lei?
«In realtà ci penso: o meglio penso che il K2 sia la montagna degli italiani, quella conquistata dal nostro Paese nel 1954. Sarebbe bella una presa di orgoglio della comunità internazionale degli alpinisti e che la spedizione, italiana o no, che prima o poi lo scalerà davvero, si ricordi del vero senso di un'impresa che oggi significa, per me, scalare in puro stile alpino».
Si faccia avanti...
«No, per la prossima stagione avrei già dei progetti. Però chissà: anche se qualcun altro dovesse realizzare la prima salita invernale, potrei pensare di tornarci in futuro fra qualche anno, a modo mio».
Perché l'alpinismo è in crisi?
«Non vedo più il vero senso dell'avventura e dell'esplorazione: fra gli anni '50 ed '80, pur con mezzi inferiori, sono state realizzate grandissime imprese. Oggi con la tecnologia e anche con nuovi strumenti, dagli indumenti all'equipaggiamento, non possiamo limitarci a ripetere quelle vie. Chi fa dell'alpinismo una professione, non può avere gli stessi obiettivi di allora. O meglio deve misurarsi con le sue sfide in modo diverso».
Ci spiega l'eterna diatriba fra stile himalayano e alpino?
«Rispetto tutte le idee e soprattutto quelli che dichiarano con chiarezza che partita stanno giocando. Se salgo sul Monte Bianco non grido all'impresa. Se percorro una via normale a un Ottomila, magari intruppato su corde fisse, posso al massimo dire di aver fatto un allenamento. Oggi però una spedizione in stile himalayano, con organizzazione imponente, dispiego di mezzi, bombole di ossigeno e salita su vie attrezzate non è quello che, secondo me, deve cercare un professionista. In questo modo nulla è davvero impossibile. Dov'è l'avventura? Il senso dell'alpinismo moderno per me risiede, invece, in uno stile alpino, leggero, pulito, veloce quanto possibile e senza ossigeno supplementare. Tecnologia e conoscenza ci hanno permesso di diventare grandi: dobbiamo restarlo anche nella scelta delle nostre imprese».
Si riferisce al rispetto dell'ambiente o al vecchio motto degli scalatori sulla lealtà by «fair means»?
«Noi alpinisti dovremmo capire che siamo come gli altri: anzi, con il nostro atteggiamento, veicoliamo dei messaggi. Inutile, quindi, impegnarsi a tenere il mondo pulito dalle plastiche e poi scegliere di affollare vie normali, non ripulire i vari campi che portano in vetta. La mia plastica non è differente... Non abbiamo più scuse».
Plastica e cambiamento climatico - e ora anche un virus - sono i nostri nemici?
«No, direi piuttosto che il vero nemico è la demagogia. Tutto sta cambiando e l'uomo dovrebbe cercare di migliorarsi, evitando di individuare un solo nemico da demonizzare. La plastica, per esempio: giusto riciclarla, ottima quella bio. Inutile pensare di poterla azzerare, proficuo, invece, trovare soluzioni concrete, attuabili. Anche il cambiamento climatico va compreso, accettato, per modificare le nostre abitudini, ma non si può pensare di invertirlo: guardo i miei monti, dove nevica magari a ottobre e novembre e poi in primavera. Comunità ed economia devono tenerne conto: non lagnandosi dei bei tempi andati, ma magari costruendo una nuova proposta anche per il turismo».
Inquinamento, sovraffollamento, sostenibilità: l'emergenza è anche in alta quota
«Adesso l'Everest è chiusa per coronavirus. In futuro una strada per le spedizioni commerciali potrebbe essere quella del numero chiuso come le maratone più ambite e di un rialzo dei prezzi dei permessi. Con questo surplus si potrebbe allestire una squadra di sherpa dedicati alla montagna, sia per allestirne l'apertura a ogni stagione, sia per ripulirla alla fine del periodo. Non sono ipocrita: vivo in una valle che vive di turismo, quindi ne comprendo l'importanza. Lentamente vedo che anche il Nepal, ma soprattutto il Tibet ci stanno arrivando: le infrastrutture non sono tutte da demonizzare, ma possono essere una risorsa per tenere più pulito l'ambiente».
Nell'alpinismo dei suoi sogni la tecnologia che ruolo ha?
«Sia benedetta quando aumenta la nostra conoscenza: penso ai modelli per le previsioni del tempo, ai droni, che ci permettono di organizzare meglio anche i soccorsi. Ben venga se serve per comunicare quello che facciamo. Soprattutto la tecnologia non può sostituire competenza, prudenza e preparazione: se finisco nei guai, non posso sperare di accendere il cellulare et voilà, chiamare i soccorsi. Questo vale anche sulle Alpi, nella gita della domenica»
Ci racconta quella volta che sul Cervino udì una voce...?
«Può far sorridere, ma rende il senso di quello che voglio dire. Stavo realizzando la prima assoluta in solitaria su una parete del Cervino. Un elicottero mi filmava da lontano, col patto di non disturbarmi, anche perché una piccola distrazione e quell' elicottero non mi sarebbe certo servito a nulla. Sapevo che mio padre era salito su una cresta vicino e che mi osservava. A un certo punto, immagino pressato via radio dalla produzione, mi ha gridato di controllare perché forse la Go pro non era accesa. Io ero immerso nella mia dimensione, ma soprattutto appeso ad un uncino nel nulla. Secondo lei... ».
Immaginiamo la risposta, andiamo oltre... : lei però ama fare da cavia
«Nei programmi di allenamento sì, mi piace tentare un approccio il più possibile scientifico e sperimentare nuove tabelle. Ho scoperto per esempio che il vecchio detto Chi va piano, va sano e va lontano non è verissimo. Per prepararsi, per esempio, all'Himalaya, serve uno choc all'organismo. Se sono abituato a correre 10 km e una volta in quota, in Nepal o Tibet per esempio, faccio lo stesso, ma rallentando come una lumachina, non miglioro. L'acclimatamento deve rompere con la routine».
Oggi non si scala più con borraccia e maglione di lana: è un'ovvietà ma quanto si è raffinata la preparazione?
«Molto. Ho un pool di esperti che mi segue e la mia nutrizionista Elena Casiraghi, ex atleta, mi coccola con i flavanoli del cacao che migliorano la funzionalità vascolare. Mi piace sperimentare nuovi materiali e grazie a uno dei miei sponsor - The North Face - lo scorso autunno abbiamo testato il Futurelight, una membrana innovativa, leggera e super resistente che ha ridisegnato sia ingombri e pesi. Ci sono tende d'alta quota che pesano meno di mezzo chilo. Poi si leggono le cronache di Bonatti e Messner fra calzettoni e corde di canapa...».
Sono loro i suoi modelli?
«Certamente, ma i miei modelli cambiano anche con letà. Stimo molto Valentino Rossi o altri sportivi come Roger Federer ed Andre Agassi e non per quello che hanno vinto e conquistato, ma per come hanno saputo rialzarsi dalle sconfitte e nelle difficoltà. Se devo dirla in musica, penso a Fabrizio De André: attento ai problemi del suo tempo, ha cantato la sua contemporaneità, si è impegnato, pur non avendo la verità in tasca. È un po' come essere in cordata e sapere di avere fatto tutto il possibile per tentare una cima».
Lei ha un conto in sospeso con il mare: ce lo spiega?
«Ho un
sogno da realizzare con Giovanni Soldini. La prima volta che ci siamo confrontati mi ha detto di no. Poi ne abbiamo riparlato. Sarà un viaggio, prima insieme poi ognuno per la sua strada: chissà, verrà anche quel momento».
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