Cultura e Spettacoli

Addio a Marisa Sannia minigonne e musica folk

«Quella casa bianca che, non vorrebbero lasciare, è la loro gioventù, che mai più ritornerà». Nel ricordo popolare certi artisti rimangono anche per una sola canzone come Casa bianca, inno dolceamaro, romantico e un po’ ingenuo, all’adolescenza, scritto da Don Backy, che Marisa Sannia (in coppia con Ornella Vanoni) piazzò al secondo posto del Festival di Sanremo 1968 vendendone più di mezzo milione di copie e portandolo in giro per mezza Europa, dove la sua versione divenne più celebre di quella di Dalida. Cantante intimista - la Sandie Shaw italiana come la definì qualcuno - tanto riservata da sfuggire il successo in tutte le sue forme, se n’è andata ieri a 61 anni, fulminata da una breve malattia.
Non era una star allora e tanto meno lo era in questi anni (anche se la sua attività è proseguita fino al 2007 con splendidi dischi folk dedicati alla sua Sardegna) ma in quel plumbeo ’68 sanremese fu superata soltanto da Canzone per te cantata da Sergio Endrigo e Roberto Carlos, e si mise alle spalle Celentano e Milva con Canzone. Magra, capelli biondi a caschetto, altissima (giocava a basket e nel ’65 fu persino convocata in Nazionale), un po’ timida, voce spoglia e dagli allusivi chiaroscuri, contraddistinse quegli anni con la sua vena melodica ma mai banalmente commerciale.
Cresciuta a Iglesias, in provincia di Cagliari, si divide tra sport e musica finché non vince un concorso per voci nuove della Fonit Cetra che le procura il primo contratto discografico. A scommettere su di lei sono Luis Bacalov e Sergio Endrigo. Fu proprio Endrigo - che la battè a quel famoso Festival -, il faro della sua carriera artistica, a produrre il suo primo 45 giri Tutto o niente e a volerla nell’album L’arca, raccolta di canzoni per bambini scritte da Vinicius De Moraes.
Scala reale e Settevoci di Pippo Baudo, in cui vince sette puntate di seguito, le portano la popolarità televisiva e l’immediatezza di brani come Una cartolina, Sono innamorata (ma non tanto), Sarai fiero di me (premio della critica e terzo posto al Festivalbar del ’67), Non è questo l’addio, Una donna sola, Una lacrima, La finestra illuminata hanno fatto il resto. Non brani memorabili (molti però finalisti di Canzonissima e di altre importanti manifestazioni), ma pezzi immediati che caratterizzano lo stile spartano e poco appariscente dell’artista. Così come le successive apparizioni a Sanremo, nel ’70 e ’71, con l’evanescente L’amore è una colomba in coppia con Gianni Nazzaro e con la romantica Come è dolce la sera con Donatello, che però si piazza al quarto posto e fu registrata in versione spagnola persino da Baglioni.
Interprete diligente ma al tempo stesso personale, è molto amata non solo da Endrigo, che per lei scrive altre belle canzoni come La mia terra, ma anche dai giovani Minghi e De Gregori (che firmano Il mio mondo il mio giardino) e soprattutto da Mogol che le regala La compagnia, poi registrata da Battisti e persino da Vasco, in uno strano passaggio generazionale tra puro melodismo e rock scatenato. Nel suo periodo d’oro c’è anche il cinema; i famosi «canterelli» tra cui Stasera mi butto con Giancarlo Giannini e Rocky Roberts e inoltre il musical e il teatro con Albertazzi. Ma i riflettori non fanno per Marisa Sannia, sempre più lontana idealmente ed artisticamente dal mondo canzonettistico. Nel 1976 debutta come cantautrice con l’album La pasta che scotta e inizia un percorso di ricerca coraggioso e solitario. Nell’84 tornerà svogliatamente a Sanremo con Amore amore, prima di allontanarsi definitivamente dalla scena. Senza però smettere di «fare arte», come amava dire. Prende così a riscoprire le sue origini folk, incidendo album dal profumo etnico come Sa oghe de su entu e de su mare, Melagranada, Nanas e janas del 2003.

La sua sete di cultura popolare e poesia negli ultimi anni l’ha portata a studiare l’opera di Garcia Lorca; la ragazzina bionda e un po’ ingenua ha lasciato spazio alla sensibile intellettuale che ha inciso Rosa de papel, album che uscirà postumo, dedicato al grande autore andaluso, il cui ultimo brano recita profeticamente: «Se muoio lasciate il mio balcone aperto/ Il bambino mangia arance (Dal mio balcone lo vedo)/ Il mietitore taglia il grano (Dal mio balcone lo vedo)/ Se muoio, lasciate il mio balcone aperto».

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