Il ragazzo l'ha chiamata «propensione sessuale». È il ventunenne studente universitario di Cairo Montenotte (Sv) che ha, sembra, ripetutamente abusato di una bambina di due anni.
Se lo zio di Sara Scazzi può apparire un mostro (il cinismo, per esempio, da «consumato attore», come ha detto un commentatore tv, con cui ha recitato per giorni davanti alle telecamere), questo ragazzo è così normale, così uguale ai nostri figli da lasciare poco spazio alla ricerca di patologie.
E noi, qui, a commentare. Siamo diventati tutti moralisti «di nessuna morale», come scrisse una volta Leonardo Sciascia. Preti, giornalisti, medici, intellettuali, politici: tutti con la faccia preoccupata, tutti pronti a condannare, a trarre conseguenze, moniti, timori. Qualcuno, poi - psicologi, neurologi, psichiatri - possono cavarsela nascondendosi dietro le loro competenze professionali.
Ma almeno uno scrittore dovrebbe evitare questa deriva che porta dritta all'ipocrisia, visto che in questi casi tutti sappiamo da che parte stare. Uno scrittore dovrebbe provare a rimanere all'altezza delle cose, senza protezioni, senza sponde. Se c'è un buco nero, lo scrittore ci deve entrare.
Tutti noi abbiamo i nostri bravi vizietti, le nostre amabili debolezze, le nostre «propensioni sessuali» (o d'altra natura), e commettiamo i nostri peccatucci sotto cui spesso si aprono voragini che cerchiamo di non guardare. Tutti abbiamo i nostri scheletri nell'armadio. Però - finché non ci scoprono con le mani nella marmellata - possiamo permetterci di condannare o - che forse è peggio - di «capire».
Allora, a che serve uno scrittore? A trattenere, forse, qualche immagine, magari per paragonarla a qualche altra immagine che conserva in sé. La prima immagine è fatta di solitudine.
Quella dei vivi, come la povera bambina di Cairo Montenotte, che forse sa balbettare qualche piccola parola, ma che non può avere le parole per dire quello che le accade, mentre si trova in balia di questo ragazzo.
Quella dei morti, come la povera Sara, gettata in un pozzo pieno d'acqua mentre la madre si domanda dove sarà mai, e mille fotografie orribili le passano davanti agli occhi della mente. Ho conosciuto una madre che ha perso il figlio diciassettenne nel lago, urtato accidentalmente da un motoscafo e poi perso in quelle acque, morto, per tre giorni prima che fosse ritrovato.
Perché è vero che sono corpi senza vita, ma è del corpo che noi abbiamo bisogno, è il corpo che desideriamo stringere, per questo ai cristiani l'immortalità dell'anima interessa molto meno della resurrezione della carne. Che m'importa se la tua anima vive, papà, che m'importa, zio Gianni, zia Iose, Marcello, che m'importa, nonni miei carissimi, se non potrò più stringervi tra le mie braccia?
Ma stringere tra le braccia una persona... questo sì è il problema. Ci hanno insegnato che possiamo avere qualunque cosa desideriamo, che la felicità è la soddisfazione dei propri desideri e che tutti ne abbiamo diritto. Ma ci hanno insegnato anche che il nostro desiderio coincide con il nostro istinto, e questo falsifica tutto.
Quel farabutto dello zio di Sara, quel mentecatto del ragazzo di Cairo Montenotte hanno cercato proprio questo: di possedere quello che credevano di desiderare. E hanno visto dissolversi nel nulla quello che credevano di possedere - di stringere, appunto, tra le braccia -: quello che avrebbe dovuto essere amato, rispettato, curato. Tutto ridotto a nulla.
Qualche intellettuale coraggioso, molti anni fa, l'ha scritto: per affermare la propria felicità, un uomo deve annullare gli altri, ridurli a zero. Non so se questo sia vero, ma credo di no. Quello che credo è che le azioni di quei due criminali sono dentro di noi come una possibilità continua. Se identifichiamo il desiderio con l'istinto, come potremo conoscere noi stessi, sapere quello che c'è realmente nel nostro cuore?
Da questi casi orribili, specchiandomi in essi, imparo una cosa semplice: che noi, oggi, niente conosciamo meno dei nostri desideri. Non sappiamo più che cos'è un desiderio. Ci crediamo realisti perché pensiamo che uno possa desiderare stuprare una bambina o violentare la propria nipote, e non ci rendiamo conto che, dicendo queste cose, scegliamo solo la via più comoda.
Crimini come questi nascono dal «non» fare i conti con il proprio desiderio.
Se facessimo i conti con il nostro desiderio, faremmo i conti anche con Dio, perché questa voglia di amore e di bellezza che ci stringe il cuore non è opera nostra.Ma questo è il passo più duro per tutti. «Gli uomini non hanno paura del male» mi disse una volta un amico psicanalista «ma del bene». Ed è così.
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