ALAN MOORE Fumetti addio mi do al romanzo

Dopo aver rivoluzionato il mondo della graphic novel, l’autore inglese sbarca nel campo letterario. In questa intervista esclusiva spiega perché

ALAN MOORE Fumetti addio mi do al romanzo

Il mondo di Hollywood ha letteralmente saccheggiato il suo immaginario in questi ultimi anni costruendo kolossal di forte impatto visivo come La Lega degli Straordinari Gentleman, La vera storia di Jack Lo Squartatore, V per Vendetta e Constantine, assoldando di volta in volta attori carismatici come Sean Connery, Johnny Depp, Hugo Weaving e Keanu Reeves. E più di un produttore ha cercato di portare a termine un progetto legato al suo «Watchmen». Eppure, nonostante il progressivo interesse che le opere di Alan Moore hanno prodotto nel mondo della comunicazione, lui in tutti questi anni ha fatto di tutto per allontanarsi dalla mondanità e per dissociarsi dalle produzioni legate alle sue geniali sceneggiature a fumetti. Ed è stato proprio il mondo delle nuvole parlanti a costruire nel tempo la leggenda di Alan Moore, uno degli sceneggiatori che maggiormente ha contribuito alla nascita delle graphic novel e agli sviluppi di un linguaggio maturo del fumetto e che nel tempo si è rivelato anche un sorprendente musicista rock, un performer teatrale, persino una sorta di sciamano e mago. E la fama che hanno ridato ai suoi lavori precedenti le recenti produzioni cinematografiche tratte dai suoi piccoli classici a fumetti ha portato Alan Moore a distaccarsi ancora di più dalla vita sociale e pubblica. Vive da tempo ritirato proprio in quella Northampton che è protagonista del suo primo romanzo intitolato La voce del fuoco, pubblicato dalle Edizioni Bd (pagg. 326, euro 16,50) nella stessa collana in cui mesi orsono è apparso l’avvincente È Superman! di Tom De Haven e dove dovrebbe prossimamente apparire un romanzo di Batman scritto dall’eclettico scrittore texano Joe R. Lansdale.
A tessere le lodi del debutto letterario di Moore è nella prefazione al volume un altro sceneggiatore di fumetti doc che nel tempo si è rivelato anche un sorprendente narratore per grandi e piccini in romanzi come American Gods, Coraline, I lupi nei muri. Si tratta di Neil Gaiman che dice esplicitamente ai lettori che il libro di Moore «non è una corsa, ma un giro di giostra, un viaggio magico nella storia, un rivoluzionario racconto dell’evoluzione, e gli unici premi che vi si possano rintracciare sono le geometrie composte da voci e da persone, da teste mozze e da piedi storpi, da cagnacci neri e da roghi settembrini, tutti elementi che si ripetono come fossero i semi di uno strampalato mazzo di tarocchi». Il romanzo è scandito in dodici storie, dodici voci diverse che hanno vissuto nella stessa regione dell’Inghilterra centrale nell’arco di seimila anni. I loro destini si incrociano con eventi magici e fantastici che sconvolgono ciclicamente le loro esistenze. Sono protagonisti diversissimi fra loro: un ragazzo delle caverne, un’assassina che si finge vittima per ottenere una favolosa identità, un pescatore mutato in una nuova specie animale, un antico romano che scopre i segreti del proprio impero e la maledizione del piombo, una paraplegica guarita miracolosamente, un crociato che perde la fede, due streghe che muoiono per amore sul rogo. Va subito sottolineato che per iniziare la sua carriera di romanziere Alan Moore non ha certo scelto né mezzi termini né soluzioni facili. Lo si capisce fin dalle prime righe de La voce del fuoco dove la prima storia che compone il libro viene narrata dal punto di vista di un uomo dell’età della pietra. È una scelta stilistica che potrebbe fuorviare subito i lettori meno corazzati, quelli che si aspettavo un romanzo fantasy o di fantascienza, un noir, un divertissement vittoriano o sconvolgenti nuove rivelazioni su Jack Lo Squartatore: «Buona fortuna con la lettura del primo capitolo - sorride beffardamente Moore -. Ho fatto del mio meglio per scriverlo in un’approssimazione del linguaggio e del pensiero di un individuo del Neolitico. Ho impiegato un vocabolario di circa quattrocento parole in tutto. È un racconto di circa sessanta pagine, e usa solo quattrocento parole. Dato che il vocabolario del troglodita medio che legge il Sun consta di circa diecimila parole, è evidente che il mio è stato un esperimento azzardato. È quasi illeggibile. A me piace molto il risultato finale, ma molti amici mi hanno fatto notare che non sarebbe stato male scrivere il primo capitolo del mio primo romanzo in inglese. Li ho mandati al diavolo». Alan Moore ha impiegato parecchio tempo per portare a termine il suo romanzo e nel frattempo lui stesso ha subito una vera e propria trasformazione della sua vita, da sceneggiatore di fumetti si è trasformato in una sorta di mago, di sciamano che quotidianamente si confronta con la magia e i suoi effetti. «Ci ho messo cinque anni a scrivere La voce del fuoco - confessa -. Ho cominciato nel 1990, o nel ’91. Non avevo ancora preso in considerazione la possibilità di diventare uno sciamano, e non avevo un chiaro interesse nei confronti della magia, una svolta consapevole avvenuta all’occasione del mio quarantesimo compleanno, alla fine del ’93». E la componente magica che da tempo riveste un ruolo essenziale della sua vita personale è fondamentale per comprendere le storie contenute ne La voce del fuoco. «Non ci sono molti sciamani dediti all'uso di una parola-magia - spiega Moore -. Volevo portare la mia Northampton nella consapevolezza dell’io tramite un flusso di parole che fosse come una canzone magica. L’esperimento mi ha coinvolto a un livello tanto personale e profondo che mi sono scoperto a narrare il capitolo finale in prima persona: ero io a cantare Northampton». Quindi può risultare sconvolgente per il lettore supporre che tutte le vicende contenute nel romanzo di Alan Moore possano essere vere oltre che credibili, pensare che il celebre sceneggiatore britannico abbia rivolto su di sé una sorta di rivoluzione copernicana della coscienza che lo porta a un approccio diverso nei confronti della realtà, dei suoi simili e degli avvenimenti che quotidianamente l’attraversano: «Il panorama intorno a me dà forma al panorama della mia mente. Non dico che sia la verità, ma senza dubbio è il modello che meglio funziona in questo contesto. La magia è una relazione più dinamica con la nostra coscienza; è una comprensione più dinamica di cosa siano la coscienza e il pensiero. Perché il pensiero è la zona cieca della scienza. Non ci si può riferire alla mente in termini di esperimenti empirici e di logica cartesiana - non è possibile dimostrare nulla.

Così mi sono detto che forse era necessario un nuovo modello di coscienza, e l’ho creato. Non intendo asserire che sia nuovo e originale. Ci sono similitudini con l’inconscio di massa di Jung e con il Terzo Mondo di Karl Popper, ma in essenza è il mio modo di descrivere lo spazio occupato dalle idee».

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