«Il nemico principale della giustizia è la sua lentezza». Non ha avuto incertezze, il Guardasigilli Angelino Alfano, scandendo ieri queste parole di fronte allesclusivo parterre internazionale del Workshop Ambrosetti di Cernobbio. Corredandole perdipiù, come si conveniva al contesto, di dati sufficienti a parlare da soli. Ovvero 3,3 milioni di processi penali pendenti, 5,6 quelli in materia civile, 40% di crescita annua dei ricorsi negli ultimi sei anni e 170mila prescrizioni in media ogni dodici mesi, il che significa che «170mila vittime di reato non hanno avuto giustizia e che 170mila colpevoli non hanno avuto una sanzione».
E ha avuto ancora meno incertezze, il ministro, declinando poco dopo gli stessi concetti con i giornalisti, ma in un linguaggio più vicino alle corde della politica italiana. Comè ormai noto, ha ribadito Alfano, il «processo breve non farà parte della mozione parlamentare, così come richiesto dal presidente del Consiglio», perché in questo modo il premier «si è sottratto a un linciaggio strumentale e mediatico da parte della sinistra».
Si è trattato di una scelta dettata dal fatto che «riteniamo che non si debba abbinare una giusta idea, quella di abbreviare i tempi dei processi, a una sua cattiva interpretazione», ovvero che «fosse una norma ad personam». Interpretazione respinta invece dal Cavaliere, ha continuato il Guardasigilli, «che ha giustamente e legittimamente detto di essere disinteressato a questo genere di norme».
Alfano non ha poi precisato se la proposta andrà avanti, ma ha tenuto a sottolineare che quella del processo breve «è una norma sacrosanta che ci viene richiesta dallUnione europea e in assenza della quale continueremo a pagare soldi ai nostri concittadini che si lamentano per la lentezza dei processi».
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