Controcultura

Angeli, vittime e bestie La vita sull'orlo del cratere

Nel nuovo romanzo di Aurelio Picca, un uomo a cui è rimasta solo la vendetta ricorda un passato di violenze

Angeli, vittime e bestie La vita sull'orlo del cratere

In questo libro s'inizia con i vulcani, si finisce con i pianeti, Venere e Saturno la scrittura, d'altronde, quando è autentica, quando è vasta, è come liane di lava, ardenti, colloca le cose in una disinvolta e disfatta eternità. Non c'è differenza tra il fuoco che s'irradia dal cuore della terra e il sangue, che permette all'uomo atti di sterminio, e la pietà, sterminata. Alfredo Braschi, quando si mette a raccontare la sua storia, non è «più giovane, però ancora forte», è «un uomo che ha la vita rivoltata come lo stomaco», ha con sé una manciata di pistole, una delle quali buona ad ammazzare i tori. «Quest'uomo ormai è pronto a uccidere o a morire», ci dice, immediatamente. Quest'uomo, che ha preso a morsi la vita, non ha più nulla, non ha soldi, non ha amici: ha un'arma e un compito. Vendicare la figlia, «morta di overdose nel 2000 in Francia, a Gardanne, aveva ventiquattro anni», sfregiata brutalmente quando era bimba. Non c'è altra rettitudine che vivere per onorare i morti e per i morti, uccidere. Il più grande criminale di Roma è stato amico mio, ci urla addosso, fin dalla copertina (Bompiani, pagg. 250, euro 17), Alfredo Braschi. «Il più grande criminale di Roma» è «Laudovino De Sanctis, nato il 16 novembre 1936 a Collepardo», quello del Clan dei Marsigliesi, «Lallo lo zoppo», «la Bestia», autore di alcuni dei colpi più efferati e spettacolari che hanno squarciato la Capitale tra gli anni Settanta e Ottanta, compreso il sequestro e l'assassinio dell'industriale Valerio Ciocchetti e quello di Giovanni Palombini, accoppato e messo in frigorifero per garantire integrità al corpo («Tiravano fuori dal congelatore il cadavere, lo fotografavano, per inviare la prova ai familiari che il signor Giovanni fosse ancora vivo; poi di corsa lo riponevano al freddo»).

L'uomo è un vulcano, può placarsi, in una apofatica quiete, o esplodere, ammazzando, travolgendo tutto: in ogni caso, le scelte sono lì, indelebili, circoscritte nella lava. Inevitabili. Con impietosa potenza, alterando i generi, alternando gli stili dai registri processuali alla bulimia erotica, con un verbo, ora barocco ora rapace, che ricorda Curzio Malaparte , Aurelio Picca racconta la storia di un padre squarciato, l'Iliade corrotta di un criminale, lo scempio di un'epoca. Il romanzo comincia con i vulcani crateri che tutto risucchiano, tutto vomitano e con un macello; finisce in una mitragliata di «pensieri bianchi, nel cervello... colpo dopo colpo avrei voluto abbattere corpi, auto, alberi: sagome da stracciare e gettare nella fogna». Finisce, piuttosto, in una specie di appestata redenzione. È un libro imperiale e impunito, questo, perché dell'uomo mostra la brutalità, la schifezza («l'orrore ha sputato sulle nostre anime e le ha strappate via mentre il mondo continuava a girare, a farsi i cazzi suoi»), l'ansia disadatta di amare, e Picca è lì, come gli scrittori avvezzi al rischio, indifeso ma armato, stretto tra Caso e Caos, ad ascoltare l'aforisma del miracolo, l'estrema brace della tenerezza. In questo romanzo appaiono Vittorio Sgarbi, uno strafatto Franco Califano, l'ineffabile Dalida, Mario Schifano («A fine 1974 Lallo lo Zoppo comprò da Schifano una scultura. Era una Palma. Ai miei occhi Laudovino e Schifano erano due fichi della madonna»), le «mani da chierichetto» di Matteo Salvini («Sono femminili. Da chirurgo estetico») e Maurizio Landini, «un maschio antico, tosto». Ci sono anche, nel lebbrosario della contemporaneità, Lewis Hamilton («Ha il sorrisetto di uno che te lo mette nel didietro senza vaselina. Paraculo») e Mario Balotelli, il calciatore, con l'Ode dedicatagli da Picca, che fa ingresso, innominato e a gamba tesa, nel romanzo.

Eppure, il narcisismo dello scrittore a pagina 117 cita ancora se stesso, replicando un articolo uscito su Il Foglio il 10 agosto 2019, dal titolo Roma sparita: l'omicidio di Diabolik non è solo erotico, è eroico, ha la necessità di una confessione: «Questo romanzo è un viaggio che ha Cristo sepolto in petto. E spero la tenerezza e il profumo di quando eravamo sul serio tutti innocenti. Vi prego di perdonarmi se ho osato darmi in pasto». Soprattutto, è un romanzo gravido di sapienza arcana, grave di sentenze che ti si incollano alla bocca («La tristezza è superiore alla morte. È il fantasma della morte. Se la morte non fosse semplice e spietata soffrirebbe anche lei di tristezza. La tristezza mozza il fiato. Ti divora più che non mangiare per due mesi di fila»; «Gli uomini sentimentali sono i più feroci. Coloro che si perdono nel sogno dell'amore. Poi, quando vedono che svanisce o non può essere trattenuto, come accadde a Lallo, si trasformano in belve. Partoriscono odio»), che danno il tono, meridiano e ferito, al libro.

Naturalmente, la gloria di un romanzo è nella forma: i passaggi impeccabili, in un tempo stupefatto, putrefatto, sono molti (uno è questo: «I pini di Lavinio sono fratelli dei pini di Roma. Hanno visto godere e uccidere. Sono pregni di vita e di tristezza. Quanti amori finiti e perduti hanno visto. Quei pini possono perfino deragliare o scheggiare la luce del cielo»), simili a torsi di Marte scolpiti nella lava. Al principio, Picca racconta la morte di alcune bestie, in un allevamento. «Le mucche erano spinte e tirate mentre orinavano e cacavano. Avevano occhi di albume. Pareva si sforzassero per piangere», scrive.

L'uomo, rispetto al resto delle creature, piange senza sforzo, sa piangere mentendo; è poco meno di una bestia, pressappoco un angelo.

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