Lettera aperta a mons. Bagnasco.
Caro Angelo, mi rivolgo a te, senza il «don» spagnolesco, «sua eccellenza» che attende di esser detto «eminenza» o addirittura «generale» delle pacifiche armate statali. Gesù, a cui tu ancora ti richiami, non fu assistente delle centurie romane, non ebbe titoli mondani, e i suoi discepoli si chiamavano per nome. Te l'immagini le lettere di Mons. Paolo di Tarso, il vangelo di S. Ecc. Giovanni di Zebedeo? Non ti scriverei se avessi già perso la speranza che sia ancora vivo il lucignolo della fede infantile e giovanile e il lume di ragion critica provato dalla facoltà di filosofia. Non troverai la città di Siri, di Angelo Costa e di una borghesia attenta al bene comune, con gesuiti, domenicani e francescani colti e spiritualmente provati. In un popolo laborioso e produttivo. Limmensa greppia dell'industria di stato che sfamava poteri curiali e partitici è stata dilapidata da managers di partito alla Prodi, oggi designato a dilapidare la sinistra al governo. Siamo in una città che soffre e patisce perché non riesce a scrollarsi di dosso un ceto burocratico selezionato a rovescio. A riguardo dei problemi gravi della chiesa con insistente cura nei quarant'anni di vita genovese ho cercato di richiamarli ai tuoi predecessori che, se si eccettuano Siri e Canestri, mai hanno neppure accettato un colloquio. Sempre mi espressi lealmente tra licei, università, Pci di Berlinguer, libri, saggi, articoli, lettere ai vari, ripeto vari, quotidiani genovesi... Dopo le chiusure di alcuni mi sono rivolto a Lussana, che per ora resiste alla generale asfissia settaria nella sua libera dignità professionale non servile. Per questo appello i redattori di quelle testate possono seguire il suo esempio mostrato a proposito del turismo politico «di sinistra» e una recente mia polemica col direttore del Cittadino.
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