ANGLOFILIA

Nell’Ottocento l’apice dell’idillio fra liberalismo anglosassone e patriottismo risorgimentale

Per spiegare che cosa sia stata l’anglomania italiana, di cui Edgardo Bartoli traccia un ironico eppur malinconico ritratto nel suo Milord (Neri Pozza, pagg. 217, euro 19), nulla vale di più del racconto di quel gentiluomo italiano del dopoguerra che, arrivato a Londra e preso possesso della stanza del club che lo ospitava, mandò il suo cameriere in missione esplorativa fra Smoking room, Library, Coffee Room, Cocktail Bar, Inner e Outer Morning Room... Al suo ritorno il domestico fu telegrafico: «Signore, qui al club di inglese ci siete solo voi!».
L’anglomania è una perversione dell’anglofilia, una sorta di scimmiottamento che si compiace dell’apparenza nel suo confonderla con la sostanza. Di fronte a essa i diretti interessati su cui si appunta la sindrome imitativa hanno lo stesso atteggiamento che, in altri secoli, si poteva avere verso un selvaggio travestito alla meglio con indumenti occidentali: un misto di divertimento e di temperato disprezzo, di benevola comprensione e di radicata diffidenza.
«Che cosa sia stata» abbiamo detto all’inizio. L’uso del passato non è casuale, visto che l’anglomania oggi non esiste più, è old fashion, ovvero fuori moda, e se sopravvive è in una fascia ristretta d’età, quella degli over cinquanta, l’unica che avendo avuto anche qualche rudimento e sentimento di anglofilia poteva illudersi sulla profondità di una semplice esteriorità. Non esiste più da quando non esistono più gli inglesi in quanto tali, modello e simbolo, voglio dire, virtù pubbliche e private, old fashioned anche loro, relitti più o meno superbi di un passato che il presente erode sempre di più a colpi di una modernità incivile.
L’«inattualità» è tuttavia il punto di forza del libro di Bartoli, molto di più di un divertissement sul tema, ma al contrario una riflessione su che cosa voglia dire essere una nazione, il suo carattere e la sua storia presi nella loro interezza, pregi e difetti, trionfi e tragedie: la logica, tipicamente anglosassone, appunto, del «right or wrong it’s my country», giusto o sbagliato, è il mio Paese... Logica singolare grazie alla quale gli inglesi si sono sempre potuti sentire tali, ma che rapportata agli italiani diventa, chissà perché, inservibile.
Vediamo di spiegarci meglio. Due dei ritratti più affascinanti di Milord riguardano Alberto Denti di Pirajno e Amedeo Guillet, medico e scrittore l’uno, militare e diplomatico l’altro. Il libro sull’Africa del primo non ha nulla da invidiare al capolavoro di Karen Blixen, le imprese belliche del secondo ne fanno una sorta di Lawrence d’Arabia italiano. Entrambi servirono l’Italia durante il fascismo e poi in guerra e francamente ha poco senso cercare di stabilire il loro tasso di fedeltà ideologica al regime: più semplicemente si muovevano in quella logica prima citata che è uno dei capisaldi della grandezza britannica, l’immedesimarsi nelle sorti della propria nazione, il condividerla, il non potersene tirar fuori. Due italiani, insomma. Bartoli lo sottolinea, e però resta fuori dalla sua convinta apologia la constatazione che anche il fascismo era italiano e il continuare a far finta che fosse un’altra cosa, che non ci appartenesse, rende vano tutto il discorso e spiega bene perché nell’Italia postfascista Denti di Pirajno e Guillet furono pressoché rimossi e/o dimenticati, di certo non celebrati.
Le nazioni possono perdere le guerre, senza per questo perdere la loro dignità, ma se le perdono facendo finta di averle vinte, vergognandosi comunque di aver combattuto e accampando la pretesa che quella che combatteva non era comunque la nazione «loro», la nazione «giusta», la questione si fa disperata.
Non deve sorprendere che in un libro che tratta della passione italiana per gli inglesi, vengano fuori due caratteri nazionali come quelli appena ricordati e che dagli inglesi ricevettero onorificenze e attestati di stima. Così come c’è stata un’anglofilia, è esistita una italofilia britannica, speculare e interessante nel suo vedere spesso come pregi ciò che a noi sembrano difetti. Bartoli ne ripercorre con molta finezza la storia che ha le sue radici nel Grand Tour settecentesco di chi, come Edward Gibbon, davanti alle rovine della Roma antica sentiva di appartenere ai luoghi dove «Romolo era stato, Tullio aveva parlato, Cesare era caduto»... Ma fu nell’Ottocento risorgimentale che l’idillio toccò l’apice, perché quello fra il liberalismo inglese e il patriottismo italiano fu «un rapporto vivo e tangibile, ancorché privo di corpo politico, fatto di solidarietà da una parte e di gratitudine dall’altra, un’intesa morale al di sopra delle mutevoli circostanze diplomatiche e degli interessi contingenti».
Il suo incarnarsi in due figure tipiche, italianissime, per nulla anglomani e semmai anglofile con un senso di distacco, come Mazzini, del resto a lungo esule a Londra, e Garibaldi, non è secondario ai fini del nostro discorso. Come scrive Bartoli, riprendendo Alexandr Herzen, il rapporto degli inglesi con gli stranieri è paradossale: «Se lo straniero cerca di uniformarsi a loro non lo rispettano e lo trattano con degnazione dall’alto della superbia britannica; se invece costui conserva il suo modo di essere e di apparire, dapprima si scostano oltraggiati, poi poco a poco si abituano a vedere in lui un tipo originale. Il tipo d’uomo, occorre aggiungere, più apprezzato in Inghilterra».
In un Paese di radicate tradizioni nazionali, con una forte coscienza di classe e un potere gerarchicamente strutturato, l’originalità finisce con l’essere una valvola di sfogo e di compensazione: incanala l’eccentricità, se ne serve e la mette al proprio servizio. Lì dove le tradizioni sono deboli, le classi si mischiano, la gerarchia del potere latita, l’originalità si fa bizzarria, disordine, non contribuisce a formare un carattere nazionale, ma a disfarlo. Non a caso il nazionalismo italiano riformista, da Prezzolini ad Amendola, puntò all’educazione morale, alla serietà, alla costruzione dall’interno di una coscienza e di una dignità nazionale. E tuttavia viene da chiedersi se il popolo inglese che sul finire del Rinascimento cominciava ad assumere responsabilità imperiali fosse più maturo e/o più pulito dell’Italia che un paio di secoli dopo usciva dal Risorgimento, se il «tono» morale che prese a contraddistinguerlo non fosse più una conseguenza imperiale che una premessa nazionale, se, insomma, il gentleman non fosse più figlio dell’India e dell’Africa che del giardinetto insulare di Britannia...
Non per nulla, come nota Stefano Malatesta nella sua introduzione a Milord, «quel perbenismo di facciata e quel rispetto, autentico quest’ultimo, delle regole e delle leggi erano venuti dopo un lungo periodo in cui i numi tutelari, intesi come quelli che danno il tratto distintivo alle nazioni, erano due pirati: Sir Francis Drake e Sir Henry Morgan, quello che aveva messo a sacco Panama».
Milord è, se si vuole, anche un’autobiografia intellettuale mascherata da saggio su usi e costumi nostri e altrui. Non solo perché il suo autore, inviato speciale e corrispondente di rango, veniva chiamato dagli amici Sir Edgardo, così come in altri tempi, al ministero degli Esteri, Nicolò Carandini era soprannominato Lord Carandini, ma anche perché nell’inglese che Bartoli sarebbe potuto e/o voluto essere, c’è in controluce quella specificità italiana da cui gli inglesi sono attratti. Si veda, per esempio, il sottile distinguo che egli fa tra la «dolce vita» italiana, facciata del nostro sofferto miracolo economico, e il «dolce far niente» con cui gli inglesi tendevano a interpretarla. «Il “dolce far niente” avrebbe dovuto essere anglicizzato non soltanto per mantenere il suo significato originario di rifiuto del lavoro come scelta morale, ma per esprimere il concetto affatto moderno del diritto morale di rifiutare il lavoro. A differenza dell’Italia, dove il diritto al lavoro e il diritto a lavorare meno si sono affermati contemporaneamente, scatenando insieme le grandi feste dei “consumi” e le corse al più alto “livello” di vita, l’Inghilterra restava fedele all’ideale della “qualità” della vita, e così, quello che era stato il primo paese industrializzato del mondo, e il più altamente capitalizzato, appariva il meno viziato dal consumismo di massa, quello dove la corsa al benessere era guardata con sospetto come cosa equivoca, se non proprio colpevole».
Oppure si prenda in considerazione il suo vedere fra i motivi della grandezza imperiale d’oltremanica, «l’indolenza, la pigrizia in senso esistenziale, perché soprattutto i pigri sono sensuali, appassionati sognatori di avventure, attratti dalle terre lontane, divisi fra l’amore del focolare e il richiamo di qualcos’altro».
La scrittura di Milord è scorrevole senza essere mai sciatta, divertita ma non per questo svagata, precisa nelle citazioni. A voler essere pedanti come un recensore del Times Literary Supplement, osserveremo però che il rapporto fra parti di gin e di vermouth nel cocktail Martini soprannominato Montgomery, non sono dieci a uno «lo stesso rapporto in mancanza del quale - secondo Bartoli - egli preferiva non affrontare il nemico», ma quindici a uno, stando al suo creatore Ernest Hemingway. Quanto alla citazione di André Malraux riguardo al gentleman inglese come tipologia umana esemplare, essa è parziale: secondo lo scrittore francese due erano i Paesi che avevano dato vita a una creazione simile, l’Inghilterra, appunto, con il gentleman, e la Spagna con il caballero, figure simili eppure diverse...
Per quanto anglofilo, e come tale sopravvissuto all’estinzione del genere, Bartoli non è anti-italiano, tratto che ahimé, nel genere in questione andò spesso a braccetto fra gli anni Trenta e gli anni Sessanta. La sua è un’italianità orgogliosa e insieme riservata, low profile e understated, very british, insomma, con una punta ironicamente amara. Lo si evince dal racconto del viaggio che Mario Pannunzio fece a Londra alla vigilia del secondo conflitto mondiale, viaggio da cui, scrive Bartoli, «tornò sicuro che se la guerra ci fosse stata l’avrebbero vinta loro. Ossia “noi”, come dicevano allora gli antifascisti; come hanno sempre detto gli italiani a disagio per una ragione o per l’altra nel loro paese o sotto il loro campanile, identificandosi con qualcosa di diverso.

Invece, la vinsero proprio loro; come aveva capito benissimo quel semplice marinaio italiano preso prigioniero in Africa settentrionale nel 1943, che guardando a distanza il porto di Tobruk affollato di navi inglesi mormorava fra sé: Mare Nostrum, navi Lorum».

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