Cultura e Spettacoli

Applausi alla «regina Sakuntala»

Gianluigi Gelmetti direttore e regista del capolavoro strumentale di Franco Alfano ripreso nella versione originale del 1921

Pietro Acquafredda

da Roma

Sakuntala, bellissima sacerdotessa di stirpe regale ma allevata dal saggio Kanva, folgora il re che la incontra durante una battuta di caccia e giace con lei. Prima di far ritorno alla reggia, il re le dona un anello. L’amore, che non ha risparmiato la sacerdotessa, la distrae dai suoi doveri di servizio al tempio, e le attira una dura maledizione: «Chi l’ama la dimenticherà!»; dopo insistenti suppliche, la maledizione viene attenuata: il suo amato (il re nel nostro caso) la riconoscerà solo quando gli mostrerà l’anello ricevuto come pegno d’amore. Quando Sakuntala scopre di essere incinta, chiede di essere condotta dal re; ma giunta in sua presenza il re non la riconosce e lei non ha più l’anello. Sakuntala si dispera e fugge. Un pescatore ritrova l’anello regale e lo porta al re al quale torna di colpo la memoria e fa cercare Sakuntala. Troppo tardi: è stata vista gettarsi nello stagno delle ninfe e dissolversi in una nube di fuoco; ma ha dato al re un erede, che avrà il mondo ai suoi piedi, come Sakuntala rivela, apparendo al re che non si dà pace.
È questa la storia, raccontata dal poeta indiano Kalidasa. Storia di sogno e passione, e del suo mondo variopinto come gli sgargianti fiori orientali di cui Franco Alfano, musicista napoletano di Posillipo, ma europeo di formazione, cultura ed esperienze si candida a poeta e musicista.
La parte del musicista gli riesce meglio; ciò che emerge dalla turgida e trasparente, ricchissima di colori e continuamente cangiante orchestra è la principale ragione per cui è valsa la pena di riascoltare quest’opera, nella versione originale del 1921, e non in quella successiva della fine degli anni Quaranta, strumentalmente più edulcorata e smussata armonicamente. Di fronte a tanta ricchezza di colori e situazioni strumentali, il punto debole di Sakuntala sta, per quanto riguarda Alfano, nel declamato melodico che non spicca mai il volo, e nel libretto poeticamente e drammaturgicamente poco consistente; relativamente alle responsabilità di Gianluigi Gelmetti, artefice della ripresa sia musicale che registica, gli si deve rimproverare lo spettacolo etereo, ieratico, statico del palcoscenico in stridente contrasto con il linguaggio magmatico che con riconosciuta efficacia cavava egli stesso dall’orchestra. Scena (Maurizio Varamo) monotona ; luci, di Vinicio Cheli, monocromatiche; costumi preziosi e leggeri di Anna Biagiotti; eccessive e non sempre in sintonia con l’atmosfera dello spettacolo le coreografie di Amedeo Amodio. Molto meglio la compagnia di canto nel complesso (Francesca Patanè, Sakuntala, David Rendall, il re, e poi Elena Cassian, Anna Rita Taliento, Orlin Anastassov, Alessandro Guerzoni e Francesco Palmieri), chiamata a un compito ingrato senza la meritata gratificazione.
Ma in questa operazione di occasionale recupero che tale resta, non convince la storia delle due versioni: Alfano avrebbe riscritto alla fine degli anni Quaranta la seconda versione dell’opera, solo sulla base di vecchi appunti, giacché la prima del 1921 era andata distrutta. Davvero una favola; quando la verità potrebbe essere molto più semplice. Nel secondo dopoguerra Alfano, sentendo da una parte esaurita la sua vena creativa, e deciso dall’altra a tagliare definitivamente i ponti con il suo passato di musicista «glorioso», ma «compromesso con il regime» ricorse alla sua antica sensuale creatura, coprendone la folgorante avvenenza con più trasparente, morbida veste; e poi dichiarando, invece, trattarsi di una nuova Sakuntala.

Si replica fino al 28 aprile.

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