
Gentile Direttore Feltri, Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma oggi recluso nel carcere di Rebibbia, ci scrive dal girone infernale dove è rinchiuso. Parole che fanno tremare i polsi: celle trasformate in forni, aria irrespirabile, tetti che cuociono come padelle, e un sole che non dà tregua, manco fossimo in un campo di concentramento. Nessuna via d’uscita, nessuna tregua, nessuna umanità. Solo calore, asfissia e disperazione.
E mi chiedo: è questa la pena? O è sadismo di Stato?
Giada De Simone
Cara Giada,
la testimonianza di Gianni Alemanno, rintanato a Rebibbia dal 31 dicembre per aver violato le condizioni alternative alla detenzione, non è solo inquietante. È rivoltante.
Siamo nel 2025 e ci scandalizziamo per il riscaldamento globale, per l’afa a Milano e per i gradi Celsius nei ghiacciai, ma non diciamo nulla sulle temperature infernali dentro le celle dei penitenziari italiani, veri e propri gironi danteschi dove si marcisce, si bolle, si muore.
Letteralmente.
Perché una cosa è scontare la pena.
Un’altra è essere arrostiti vivi.
Il caldo, fuori, lo combatti: ci sono il mare, la doccia, il climatizzatore, il ghiacciolo, la granita alla menta. Dentro, invece, ti arrangi. In gergo si dice «finire al fresco», quando si va in galera, ma dovremmo dire «finire al caldo». Lì dentro ti consumi, come un pezzo di carne abbandonato in auto sotto il sole. E no, non è «la legge». Non è «la giustizia».
Non è «rieducazione».
È tortura. Pura, sistematica, democratica tortura. Alemanno, dicono, è al piano più alto di Rebibbia. Quello con vista forno. Lì il sole picchia a destra, a sinistra e sul tetto. Risultato: si boccheggia, si soffoca, si crolla. Ora, che uno abbia sbagliato va bene. Che debba pagare, ci siamo. Ma che debba pagare con la disidratazione e la follia, questo no.
Questa è barbarie da regime. Altro che Stato di diritto. E non parliamo solo dei detenuti. Anche gli agenti penitenziari stanno dentro quell’inferno. Pure loro crollano. Pure loro sudano, urlano, si spengono. Infatti si suicidano. Tanti. Troppi. Ma nessuno lo dice. Nessuno lo racconta. Meglio parlare di Pride, di Greta, di kefiah e di clima.
Alemanno ha soltanto dato voce a ciò che ogni detenuto, ogni agente, ogni creatura chiusa dietro un portone blindato, vive ogni giorno. E ci vuole coraggio, o forse disperazione vera, per raccontarlo. Adesso che lo sappiamo, cosa facciamo? Facciamo finta di nulla? Chiudiamo il giornale e torniamo sotto l’ombrellone, magari lamentandoci perché il mojito non è abbastanza fresco? Io dico no. In un Paese civile, se civili ancora siamo, la pena deve correggere, non annientare.
Deve risvegliare coscienze, non spegnerle.Deve restituire esseri umani, non cadaveri ambulanti. Perché, se torturi chi è caduto, allora sei peggio di lui. Ed è così che lo Stato, nel suo chiedere il rispetto delle regole, perde credibilità.