Armstrong, quel «Boogie» che riempì l’Odeon nel ’49

La storica serata che segnò il ritorno della musica Usa, il trombettista si presentò con il suo Concert Group

Armstrong, quel «Boogie» che riempì l’Odeon nel ’49

Franco Fayenz

Provate a chiedere a un anziano cultore milanese di jazz quale sia stato il più bel concerto nella sua città dal dopoguerra ad oggi: lo vedrete incerto fra l’arrivo di Duke Ellington nel 1950 e quello di Stan Kenton nel 1953. Il confronto può sembrare azzardato, ma non è così. La «classicità» dell’orchestra di Ellington fu superba per equilibrio ed eleganza; però quella di Kenton stupì per la potenza e la precisione, superiori perfino ai «terrific sounds» dei dischi, e per il gesto del direttore, secco e imperioso al punto da dare l’impressione che la musica scaturisse dalle sue mani.
Se chiederete notizie, invece, sul concerto più allegro e festoso, l’interpellato citerà Louis Armstrong senza esitare. Il grande trombettista arrivò al teatro Odeon - allora ben lontano da essere trasformato in multisala cinematografica - il 22 e 23 ottobre 1949 con il suo Concert Group, astuta invenzione dell’impresario Joe Glaser. Al fianco di Louis c’erano Jack Teagarden al trombone, Barney Bigard al clarinetto, Earl Hines al pianoforte, il giovane Arvell Shaw al contrabbasso, Cozy Cole alla batteria e la cantante Velma Middleton, vale a dire quanto di meglio offrisse all’epoca il jazz tradizionale. L’avvenimento segnò il ritorno della musica americana in Italia ma trovò, naturalmente, un pubblico piuttosto impreparato a causa del lungo digiuno, per non parlare dei giovani che non avevano mai assistito al jazz dal vivo. La gioia superò ogni riserva, per esempio quella sulla cantante la cui stazza superava il quintale, ma ciò non le impediva di saltare e di danzare, anzi era proprio questa la sua funzione; oppure sullo stesso Armstrong che agli occhi europei appariva un po’ troppo conscio delle sue capacità di uomo-spettacolo, oltre che di sommo solista. Ma la musica era bella, straordinaria, irresistibile. Earl Hines, forse non a caso, ottenne un trionfo personale per la tecnica impressionante, il tocco raffinato e la concentrazione sullo strumento. Pochi conoscevano il suo Boogie Woogie on Saint Louis Blues con l’interminabile trillo finale che fece pronunciare a chi se ne intendeva, come termine di paragone, il nome di Arturo Benedetti Michelangeli allora in pieno decollo.
Chi ebbe la fortuna di esserci gustò versioni memorabili di «Struttin’ With Some Barbecue», «Black and Blue», «Royal Garden Blues», «I Surrender Dear», «St James Infirmary», «Baby Won’t You Please Come Home» e di tanti altri brani celebri.

I giornalisti ammessi nei camerini riferirono della severità di Armstrong che strapazzò un campione come Bigard, colpevole a suo dire di non aver tenuto perfettamente il tempo in «I Surrender Dear» di cui era stato l’interprete principale. Il clarinettista obiettò a ragione che ciò non era possibile, ma si prese la lavata di capo senza fiatare.

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