Cultura e Spettacoli

Arriva Hegarty, il primo artista globale

Chitarra, matite, macchina fotografica: il più talentuoso performer degli anni Zero piace proprio per la sua capacità di abbattere le barriere. E il suo stile sta diventando tendenza

Arriva Hegarty, il primo artista globale

A ighiero Boetti diceva che «scrivere con la mano sinistra è disegnare», poiché andando contronatura si perdono le connessioni logiche per scivolare nel territorio della creatività libera e incontrollata. Il disegno, peraltro, è la tecnica che simboleggia i nostri tempi confusi e incerti, basandosi sul frammento, la leggerezza, la precarietà. Un foglio di carta, forse, potrà non aspirare allo status di opera definitiva ma viaggia facilmente trattenendo quelle idee improvvise e casuali che altrimenti fuggirebbero via.
Tale condizione provvisoria, divenuta nelle arti visive una vera e propria linea estetica dominante da più di un decennio, trova precisa corrispondenza nel mondo della musica indipendente. In opposizione al fascino della tecnologia, all’artificio dell’elettronica, da parecchio tempo si è imposta la tendenza al prodotto «fatto a mano», con pochi mezzi, ottenuto dal taglia e incolla di pezzi sparsi. Alla fine degli anni ’90 era il New Acoustic Movement, poi l’ambito si è allargato a vere e proprie scuole locali, in particolare dalle parti di Brooklyn, New York. Così, se la sera si possono ascoltare nuovi gruppi -dagli Animal Collective ai Grizzly Bears, dai Dirty Projectors ai Vampire Weekend- che ideologicamente rifiutano l’elettronica e rimescolano il nuovo con la tradizione, allo stesso tempo le gallerie d’arte contemporanea espongono prevalentemente piccole foto e disegni che insistono sull’incompletezza e il non finito.
In una situazione del genere capita che artisti e musicisti si scambino il mestiere, visto che in entrambi i casi non è l’accademia a garantire il talento, ma spiccata sensibilità e antenne dritte a cogliere lo spirito dei tempi. Al punto che, come nel caso di Antony Hegarty, senza dubbio la voce più bella e importante uscita dagli anni Zero, risulta sempre più difficile stabilire se sia più dotato sul palco seduto al pianoforte, oppure quando è alle prese con collage, matite e riproduzioni fotografiche. Peraltro gli ci è voluto del tempo e vincere la sua naturale ritrosia. Solo dopo il successo planetario del secondo album, I am a Bird Now (2005), fino a oggi il suo capolavoro, Antony ha rotto gli indugi cominciando a presentare gradatamente il lavoro parallelo d’artista visivo, prima in piccole mostre indipendenti, poi lavorando con la Isis Gallery di Londra, quindi esponendo anche in Italia con la personale durante il Traffic Free Festival di Torino nel 2009 e alla Triennale Bovisa di Milano la scorsa estate.
Ora, in occasione della pubblicazione di Swanlights, il quarto disco uscito un paio di mesi fa, lavoro che migliora ascolto dopo ascolto, Antony ha concepito accanto all’edizione normale del cd un vero e proprio libro d’artista edito da Abrams Image di New York e venduto a soli 31 euro, che essendo stato stampato in numero limitato di copie probabilmente diventerà presto un feticcio collezionistico. Il volume presenta il particolare modo di lavorare del cantante: fogli di carta, oggetti trovati, vecchie fotografie, vengono manipolati dal suo segno leggero, dove confluiscono la scrittura, l’immagine e il segno. Poi, il tutto, è rifotografato e ingrandito, per cui l’opera sarà la riproduzione e mai l’originale, troppo fragile e delicato per uscire dal cassetto privato dell’autore. L’intimismo, dunque, che caratterizza la ricerca musicale, sempre più rarefatta e asciutta, trova il suo stile omologo nelle arti visive.
In questa sorta di dadaismo emozionale -Antony cataloga e seleziona immagini che lo hanno colpito senza un apparente senso- ritornano soggetti a lui cari, il mondo animale, il paesaggio, stampe antiche e pagine di cronaca dei giornali, il proprio autoritratto su cui interviene disegnando o scrivendo con una calligrafia sempre più confusa e illeggibile. In appendice al volume, il critico Klaus Biesenbach, direttore del PS1 e curatore del MoMA, parla di «Drawing Voices» citando a tal proposito un’espressione di Paul Klee «tenendo una linea per una passeggiata», a sottolineare l’assoluta coerenza tra le due facce di Antony, entrambe mature.
D’altra parte il background di Antony affonda più nell’arte, soprattutto nel teatro, che nella musica. Divenuto una starlett del mondo notturno e alternativo di New York con atteggiamenti da drag queen e performance ispirate all’inglese Leigh Bowery, approda al pop, peraltro in una versione molto classica, che unisce romanticismo a melò, grazie alla conoscenza di personaggi come David Tibet dei Current 93 e, soprattutto, di Lou Reed che lo porta con sé come seconda voce nel tour di Animal Serenade. Timido, schivo, evidentemente non a suo agio in un corpo goffo e sovradimensionato, Antony conquista il successo solo ed esclusivamente per la sua immensa bravura vocale.

Non c’è nulla di costruito o artefatto e lo stesso vale quando si misura con l’arte, dove riesce ugualmente a catturare l’urgenza della precarietà con eleganza e poesia.

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