Patricia Tagliaferri
da Roma
Era in carcere dallo scorso 3 luglio con laccusa odiosa di aver ucciso a suon di botte una bambina di 5 anni, Alice, figlia della sua convivente. Ieri lo hanno trovato morto nella sua cella del carcere romano di Rebibbia.
Mauro Bronchi, 39 anni, si è impiccato con la cintura di un accappatoio alle sbarre della cella. Il suicidio sarebbe avvenuto intorno alle dieci. «Mi hanno detto che era tranquillo - racconta lavvocato Fabio Federico - e che ieri si era addirittura informato delle possibilità di lavorare allinterno del carcere. È molto strano che il giorno dopo abbia cambiato così stato danimo. Anchio lo avevo visto circa una settimana fa e lavevo trovato molto sereno e fiducioso nella giustizia». Qualcosa, in realtà, una ventina di giorni fa, era successo. Bronchi aveva denunciato di essere stato picchiato da alcuni agenti della penitenziaria, tanto che la Procura aveva aperto un fascicolo per lesioni. In un primo momento luomo aveva detto di essersi ferito cadendo dalle scale, poi aveva ammesso che le contusioni al timpano e i lividi su gambe e braccia erano frutto di percosse, pur non indicando i responsabili. La scientifica ieri ha effettuato i rilievi allinterno della cella e il pm Giancarlo Amato disporrà lautopsia. Poi probabilmente il fascicolo passerà ai colleghi che già si sono occupati dellomicidio di Alice.
La bambina era stata trovata in fin di vita la notte del 2 luglio dai sanitari del 118 sul tavolo dellappartamento, al Labaro, dove Bronchi viveva con la mamma della piccola, Viviana Di Laura. Alice morì poco dopo in ospedale. Aveva lividi ed ecchimosi in tutto il corpo, tanto che la prima versione delluomo, che ai carabinieri parlò di una caduta dalle scale, resse solo poche ore. Anche la compagna raccontò che era stato Bronchi a picchiare la figlia e scattarono le manette. Alcuni giorni fa la Procura aveva sollecitato il giudizio immediato per omicidio volontario. Lavvocato voleva che allimputato fosse riconosciuta la seminfermità mentale. I suoi consulenti, i criminologi Francesco Bruno e Bruno Calabrese, avevano chiesto per lui il regime di massima sorveglianza, sospettando una situazione di autolesionismo.
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