
Come si raccontano le guerre?
In tanti modi, anche coi social network che spesso crediamo neutrali, che immaginiamo come scatole di temi destinati al mero intrattenimento: dagli outfit ai pasti proteici, dalle mete di vacanza ai prodotti di bellezza, dalla musica allo sport al rapporto con gli animali. E i social di certo sono tutto questo, ma sono pure altro, sono anche palchi potenzialmente infiniti da cui argomentare, nella maniera più banale e approssimativa possibile, sui conflitti bellici che agitano il mondo; sono cioè quel complesso di strumenti e posture, digitali quanto umani, responsabili della «tiktokizzazione della guerra», codificata
all'inizio dello scontro Russia-Ucraina e adesso riproposta nelle lotte Israele-Palestina e Israele-Iran.
La conseguenza più evidente, seguendo l'analisi delle sociologhe Giulia Giorgi e Paola Rebughini, è una prospettiva addomesticante e normalizzata della guerra, confezionata da numerosi creator, influencer e non solo, all'interno di appositi post, foto e reel dove abbondano sottofondi sonori, caption ironiche, filtri, adesivi e quant'altro possa dar vita da un lato all'idea di guerra come nuova quotidianità, con cui poter perfino convivere, dall'altro alla spettacolarizzazione del conflitto, tramite la quale sollecitare l'attenzione altrui.
La guerra dunque come trend topic, come argomento traslato in meme gigantesco, che tutto fa tranne che
creare consapevolezza, anzi non genera che confusione e climi da tifoserie, genera quella che Alexander Shatilov definisce «sofa war»: la guerra dei divani, dove uomini e donne di qualsiasi età, comodamente seduti a casa propria, si schierano a distanza, militano, scelgono questo o quell'altro fronte armato semplicemente scrollando una bacheca.
Sono le cosiddette «truppe da sofa», così ribattezzate da Shatilov, che parteggiano, dicono sì o no a un lancio di missili, esultano o si rattristano per un attacco, ridono o piangono perché qualcuno nel telefono gli ha detto di fare così.