A scuola, raccontano i professori,
non si applicavano granché. Ma fuori,
sui marciapiedi di Rozzano, si dedicavano
alla loro vita da piccoli gangster
con alacrità degna di miglior causa.
Il filotto di imprese che i due mettono
a segno nel giro di soli tre giorni,
tra il 29 e il 3 aprile scorsi, è impressionante:
il 29 rapinano il cellulare e 50
euro a un ragazzo nei pressi del cinema multisala Medusa; il giorno dopo, nei sotterranei dello stesso cinema, aggrediscono due ragazzi più grandi di loro, via i cellulari e 50 euro; poi escono dal cinema e in via Curiel placcano un minorenne, gli strappano telefono e catenina; il primo marzo ufficialmente si riposano, ma è possibile che abbiano colpito qualche vittima che non ha avuto il coraggio di denunciarli; il 2 aprile davanti al centro commerciale Fiordaliso rapinano il cellulare a uno di sedici anni, che evidentemente deve star loro antipatico, tanto che lo prendono di mira: il giorno dopo lo rintracciano mentre gira in motorino, lo riempiono di botte e gli portano via il bracciale d’oro e un anello; tre giorni ancora, lo ribloccano e lo costringono a vendere il ciclomotore agli zingari di via Chiesa Rossa per cento euro che ovviamente gli portano via seduta stante. Insomma, un inferno.
Anche per le cronache hard boiled di Rozzano la storia di questi due ragazzi, arrestati ieri mattina dai carabinieri, è di quelle che colpiscono allo stomaco. Il più vecchio ha sedici anni, il minore ne ha quattordici: cioè è appena entrato nella fascia di età che per la legge consente di essere processati e puniti. A entrambi si applica il codice penale under 18, che considera il carcere l’ultima ratio, il rimedio solo per i casi estremi. Ma loro due, per l’appunto, un caso estremo lo sono. E il giudice firma l’ordine di custodia che li manda al carcere minorile Beccaria e mette fine - almeno per un po’ - alle loro imprese a base di coltello e tirapugni.
Ritagliato e conservato, come un qualcosa di rilevante e formativo, in tasca di uno dei due trovano un articolo di giornale: uno solo. Parla di Bernardo Provenzano, il padrino, zio Binnu, arrestato l’11 aprile 2006 dopo una latitanza di quarant’anni. E che il rozzo contadino corleonese divenuto capo di Cosa Nostra potesse costituire una sorta di modello per questi adolescenti del crimine offre forse qualche spunto di riflessione. Per il resto le storie dei due ragazzi di spunti ne offrono pochi, nella loro ordinarietà. Le mamme sono entrambe casalinghe, il padre di uno fa l’operaio, l’altro è un disoccupato con qualche precedente penale alle spalle. Ma a incombere su entrambi sembra più che altro il consueto cocktail di noia, di desideri, di valori assenti o non assimilati: che stavolta ha prodotto due mine vaganti.
Quando le denunce hanno cominciato a piovere sul tavolo dei carabinieri di Corsico, quando si è iniziato a capire che dietro aggressioni e violenze c’era sempre la stessa mano, è iniziata la caccia. Le descrizioni coincidevano tutte: molto giovani, smilzi, felpa e cappuccio, jeans, raggio d’azione ristretto tra il multisala, il centro commerciale, la fermata del 15. I carabinieri iniziano a marcarli, un giorno per un filo non li arrestano in flagrante, poi la Procura chiede e ottiene l’ordine di cattura.
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