BALCANI Nel segno di una sola civiltà

Un’iperbolica, tragicomica galleria di personaggi affolla «Fìdeg», il romanzo d’esordio di Paolo Colagrande

nostro inviato a Belgrado
Scriveva lo storico Dione Cassio, proconsole romano, intorno al 220 dopo Cristo: «Traiano ha costruito sopra il Danubio un ponte di pietra che non sono mai sazio di ammirare... Come si fa a non rimanere stupiti dalle energie spese per costruire tali archi o dal fatto che essi siano stati piazzati su di un fiume così profondo, in acque così vorticose...?».
Fu quando l’imperatore decise di spostare il limes oltre il Danubio e attraversò il grande fiume a Viminacium per sottomettere con le armi la Dacia. Oggi del capolavoro dell’architetto Apollodoro di Damasco, meraviglia dell’ingegneria romana con le sue 21 arcate alte più di 30 metri, rimangono poche pietre. Eppure si chiama ancora Pontes la località dove una postazione militare difendeva l’accesso al ponte, là dove fino a metà dell’Ottocento uno spezzone di arcata ancora si protendeva sulle acque. E dalla terra di Pontes emergono testimonianze preziose, sculture bronzee di squisita fattura, maschere forse indossate in giochi e tornei, là dove si celebrava il fasto di Roma, così potente, così lontana.
Bisogna andare fuori d’Italia per capire il significato della romanizzazione, quell’incredibile forza unificatrice rimasta incisa nelle terre dell’impero come un segno indelebile. Viminacium, per esempio, capitale della Mesia superiore, l’attuale Serbia: il castrum fondato nel I secolo dopo Cristo (quando il limes era ancora costituito dal Danubio) a guardia del confine contro le infide popolazioni limitrofe. Viminacium oggi non esiste più, fu cancellato dalla furia degli Unni: chi si reca oggi nelle vicinanze dell’odierna città serba di Kostolac, attraversa villaggi zingari e miniere di carbone, e arriva in una squallida pianura, dominata da due grandi centrali termoelettriche. Solo guardando con più attenzione i campi di terra scura, ci si accorge che sono fittamente disseminati di frammenti di pietra e terracotta. Sono i resti di Viminacium, che arrivò a ospitare fino a quattromila legionari. Nei campi sono rimasti i resti degli acquedotti, delle terme, delle porte, delle mura, le cui tracce vengono oggi strappate alla terra che le ricopre.
La pluridecennale barriera eretta dal regime di Tito fra le terre balcaniche e la sponda italiana, ha impedito fino a non molto tempo addietro di comprendere quanto ricca e profonda sia stata per secoli e secoli la koiné dell’Adriatico, questa via d’acqua che univa, più che dividere. La difficoltà di contatti fra gli studiosi jugoslavi e quelli del resto d’Europa, le recenti guerre balcaniche hanno perpetuato l’isolamento che oggi finalmente si spezza, rivelando le splendide testimonianze di una lunghissima civiltà.
Non solo romana. Nel Museo nazionale di Belgrado, la direttrice Tanja Cvjeticanin scarta con infinita cura cartoccetti di carta velina. Ne estrae di tutto: dalle perle d’ambra ai gioielli d’argento, alle splendide cinture e ai pettorali d’oro lavorati a sbalzo, provenienti dalla tomba principesca di Novi Pazar. Opera di antiche botteghe locali del V secolo avanti Cristo, probabilmente istruite da più abili orafi greci.
È tutto impacchettato al museo, ospitato nella palazzina primo Novecento di una banca e che oggi affronta una radicale ristrutturazione che dovrebbe concludersi in tre anni. Fino ad allora tutto è negli armadi: anche la statuetta di un fabbro al lavoro dell’epoca di Hallstatt che mostra curiose analogie con le figurazioni cicladiche; anche i due bellissimi satiri bronzei di età ellenistica pervenuti in stato perfetto; anche lo splendido ritratto del padre di Traiano, realistico e malinconico; anche il sontuoso servizio romano d’argento da mensa, che sembra concepito da un argentiere di oggi; anche il rarissimo cratere bronzeo di Trebeniste, opera di un’officina corinzia dell’VIII secolo.
Tra pochi giorni si incomincerà a ripulire il cratere per esporlo alla grande mostra che si aprirà il 7 luglio al Museo nazionale archeologico di Adria, la città che diede il nome al mare: «Balkani. Antiche civiltà fra il Danubio e l’Adriatico». Anche il museo di Adria riapre dopo un lungo silenzio e ospiterà, accanto ai propri tesori (tra cui i tre cavalli provenienti dalla cosiddetta Tomba della Biga) duecento dei più bei pezzi del Museo di Belgrado. «Una vera generosità - commenta Giovanni Gentili, il curatore della rassegna promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo - il cratere, per esempio, era stato richiesto dal Metropolitan di New York per un’esposizione. Ma il museo ha preferito darlo a noi».
«New York è certamente più celebre di Adria - spiega la direttrice - ma a noi premeva, più che stupire con la rarità dei reperti, ricostruire la storia di una civiltà comune». Tanja è una fan di Roma.

Accarezza un oggettino d’argento: «Lo crederebbe che è un portauovo? Io sono un’archeologa e in quanto tale ogni reperto mi affascina: ma quando mi trovo davanti ai segni di Roma, non so com’è, mi emoziono di più». Ripone con cura il portauovo, riavvolgendolo nella carta velina con tenerezza quasi materna.

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