Economia

«Basta con le banche, usciamo da Unicredit»

da Roma

Professor Emanuele, da ieri Capitalia non c’è più. Da presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Roma, legata storicamente al gruppo capitolino, le dispiace?
«Mi dispiace che a Sud della Toscana non ci sia più una banca nazionale. E che tra Firenze e Palermo il capitale del sud venga ora assorbito e indirizzato nelle zone dove opera il gruppo Unicredit».
La sua Fondazione è ora azionista con l’1,1% di Unicredit. Resterete soci?
«No, l’orientamento è di vendere al meglio. Non ai prezzi di ieri, ma qualcosa di più. La nostra quota vale di più». A Emanuele, che con CariRoma era uno dei maggiori soci di Capitalia (5%), la fusione con Unicredit non è piaciuta. «Noi avevamo idee diverse, crescere per linee interne, costruire un grande istituto rivolto al bacino del Mediterraneo, che avrà una valenza economica sempre maggiore». Ma l’uscita dalle banche, per la Fondazione, diventa anche l’occasione per differenziarsi definitivamente dagli altri Enti, come dice Emanuele al Giornale: «Noi siamo un unicum».
Perché?
«Intanto applichiamo un modello diverso, il cosiddetto operating maker, che significa destinare l’80% delle nostre erogazioni (68 milioni nel 2006, ndr) a settori che scegliamo noi. Sono le emergenze del nostro territorio, con 5 priorità: salute, ricerca, cultura, istruzione, volontariato. Ci tengo a dire, per esempio, che abbiamo finanziato l’unico grande ospedale per malati terminali di tutto il Centro Sud».
E sul fronte investimenti, perché sareste unicum?
«Tutte le grandi Fondazioni hanno mantenuto una presenza nel capitale della banca “conferitaria”. E mandano i loro consiglieri nei cda. Noi diciamo che il nostro mestiere è quello degli investitori sociali. Non vogliamo fare i banchieri per occupare posizioni di potere nel sistema creditizio italiano».
CaRiRoma non è entrata né nel capitale della Cdp, né in F2i, fondo per le infrastrutture. Cambierete idea?
«No, per lo stesso motivo che ho appena detto. E poi perché Cdp è al 70% del Tesoro e noi ci vogliamo tenere a distanza da ogni tipo di co-gestione pubblica nel settore finanziario. Inoltre per avere i rendimenti necessari alla nostra collettività non bastano i dividendi della Cdp, intorno al 5%: il nostro patrimonio (oltre 1,6 miliardi, ndr) ha reso il 9% nel 2005, il 10,7% nel 2006».
Si parla di Fondazioni per Telecom, Mediobanca o per la Borsa di Londra...
«Stesso discorso: non ci interessa. Guardi, noi diamo in gestione il nostro patrimonio a professionisti scelti da un advisor. Magari i gestori compreranno le Telecom, ma noi non lo sapremo e comunque non le gestiremo. Siamo privati e liberi».
Lei crede che si cerchi ancora di coinvolgere gli Enti in progetti «di Stato»?
«Assolutamente sì. Nonostante le Fondazioni abbiamo stravinto la battaglia per il riconoscimento della loro natura privata, sono sempre sull’orlo del ciclone. Tanto che è in corso un’indagine conoscitiva in Parlamento, c’è un disegno di legge per elevare la tassazione delle rendite e continuano a essere considerate “diverse”. In questo senso ho sempre detto che l’ingresso nella Cdp sarebbe stato un errore».
Torniamo a Capitalia. Perché la quota della Fondazione si era ridotta nel tempo dal 19 al 5%?
«Per effetto di operazioni sul capitale e un po’ per le tante stock option date ai dirigenti, un po’ per seguire le varie leggi che venivano prodotte negli anni. Detto questo, non siamo mai stati contenti. Le altre Fondazioni hanno guadagnato dalla banca in termini di capitalizzazione e cedole. Noi no».
Però il titolo è passato da 2 a 7 euro.
«L’unica eccezione è stata la gestione di Matteo Arpe negli ultimi anni. È stato, l’unico che ci ha dato rendimenti inusitati».

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