Politica

Battaglia all’ultimo sangue sul confine libanese

Gian Micalessin

da Avivim (Confine israeliano libanese)

La notte è finita. Loro ritornano. Occhi fissi nel nulla. Mani strette al mitragliatore. Bocche serrate. Sono quelli di Beit Jbeil. I primi dell'inferno e ritorno. «Fuck Hezbollah, fuck the arabs». Il caporale te lo ulula in faccia, alza il pugno, marcia via. Dietro arrancano i blindati. Le ambulanze si fanno avanti, si stringono attorno alla processione d'acciaio smembrato, dilaniato, ustionato. Soldati e polizia spingono via telecamere, macchine fotografiche. Le barelle corrono, dilagano in Libano, circondano la mesta colonna. Lui salta fuori, butta l'elmetto. Caccia i portantini. «Non ce n’è bisogno, son tutti morti». Scoppia in un pianto lungo, ininterrotto. Capire è difficile. La rabbia sale, i soccorsi s'affannano. La marea di divise fa muro. Quel pianto disperato racconta una notte di guerra e morte. Un altro Golgota sulla strada di Beit Jbeil. La roccaforte di Hezbollah, la capitale del Partito di Dio nel sud del Libano è quasi espugnata. Le avanguardie della Brigata Golani sono già dentro. Attorno si spara ancora. Il prezzo dell'assalto resta sconosciuto. Il pianto del carrista parla di morti. Di caduti inevitabili riferiscono voci confidenziali al telefono. Nel conteggio ufficiale non c'è nulla. Per il primo bilancio dei caduti di Maroun Ras ci vollero 24 ore, per quello definitivo tre giorni. Stavolta Al Jazeera riferisce di almeno due morti israeliani. E tarda sera i bollettini militari confermano: le vittime sono due e i feriti più di venti. Cinque di loro sono vittime del fuoco amico. Gli unici cadaveri ufficiali sono quelli dei due piloti dell'elicottero Apache caduto alle spalle di questo spicchio di frontiera spalancata sulla guerra. Ma forse ci sono anche stavolta corpi da riconoscere, cadaveri da riportare a casa, famiglie lontane da avvisare. È il volto crudele, ma inevitabile di un assalto alle roccaforti nemiche. Il volto feroce della guerra che Israele deve, ogni volta, smussare, attutire, ritardare.
Quaggiù, sulla frontiera, mortai e katyushe del Partito di Dio dispiegano cortine di fumo nero, tra sussulti, incendi di boscaglia, sinistri boati. Beit Jbila la capitale del regno di Hezbollah è lassù, sei chilometri oltre le pendici martoriate di Maroun er Ras. Si combatte ancora. Si cade per ogni centimetro di quelle colline anguste disegnate tra anfratti di roccia e macchie di boscaglia. I fanti della Golani sono dentro, la devono ripulire casa per casa. Un lavoro difficile, sporco, maledetto. Quelli di ieri notte sono stati ancora scontri all'ultimo sangue. Davanti la Ezog, i paracadutisti, le forze speciali ad acquisire gli obbiettivi. Dietro la forza dirompente dei carri Merkava da 65 tonnellate, le compagnie d'assalto dei fanti della Golani, gli elicotteri Apache a caccia di bunker e nidi di mitragliatrici. Sfidano per la prima volta le antiaeree dei guerriglieri, distribuiscono cascate di missili sulle alture. Uno non torna. Scende incontrollabile verso le colline, si schianta cinque chilometri a est di Avivim, riempie di detriti l'altura sopra l'asfalto dell'886. Anche qui voci, ipotesi, versioni confuse e contraddittorie. Quelle ufficiali confermano la morte dei due piloti solo in serata. Per lunghe ore sostengono la tesi dell'incidente. I soldati al confine parlano di un missile lanciato dalla collina maledetta, di un'arma antiaerea andata a bersaglio. I vertici di Tsahal non si scompongono. «All'improvviso abbiamo perso i contatti» si limita a dire il generale Yohanan Locker. Ma la seconda grande battaglia e una nuova conferma. Quello davanti a Tsahal non è un nemico da operetta. È una guerriglia esperta e addestrata trincerata in bunker travestiti da case, in basi mimetizzate nel sottosuolo. E intanto i missili continuano a colpire. Ne piovono un'ottantina su tutta l'alta Galilea, mandano all'ospedale una cinquantina di persone. Il comando del nord lo ripete, annullarli, neutralizzarli non sarà né facile né veloce. L'intelligence militare tiene nel mirino due unità del Partito di Dio. Una di cinquecento uomini, dotata di semplici katyusha, è ancora asserragliata nei bunker e nei villaggi sul versante occidentale del confine. Per metterla fuori gioco Tsahal non confida più nei bombardamenti aerei. Dopo Maroun el Ras i generali l'hanno capito, solo la fanteria può eliminare tutte le Maginot nascoste. La madre di tutte le battaglie si combatterà però a Tiro. Tra le banchine e la periferia della terza città libanese sono nascosti, trincerati sotterrati i missili più devastanti. Da lì Fajar e katyusha modificate hanno già colpito e ucciso ad Haifa. Da lì la traiettoria degli ordigni da 220 millimetri con testate da dozzine di chili può allungarsi fino a Tel Aviv. Tiro è ormai un immenso campo profughi. Colpire con l'aviazione non si può. Per espugnarla, per ripulire la spada di Damocle più pesante, Tsahal dovrà svuotare il sud, costringere i profughi di Tiro ad incolonnarsi sulla litoranea, spingerli a nord del fiume Litani.

Solo allora potrà colpire e vincere senza venir sepolto dal biasimo dell'opinione pubblica internazionale.

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