Dice: «Vado a Catania e subito scappo. Il disordine mentale, la gente allo sbando, l’odore d’orina nelle strade. Così me ne torno qui, nessuno ha idea del paradiso che è». Qui è Milo, il paese sulle pendici dell’Etna dove Franco Battiato ha eletto il suo domicilio, quando La voce del padrone l’ha reso improvvisamente ricco e «ho preferito investire sulla bellezza, piuttosto che sul lusso», ammette. Eccolo dunque, il paradiso: la casa accovacciata nel verde - una e trina: tre edifici, uniti a formarne uno solo -, alle spalle il lento montare della collina, più oltre il vulcano che sale a lambire il cielo. E pazienza se il tempo, lunatico, alterna pioggia e sole, «in mezz’ora è cambiato quattro volte, sereno acquazzone sereno acquazzone», ironizza Battiato senza rancore, col suo bel sorriso d’asceta.
Il rancore, del resto, non abita i meccanismi mentali d’un musicista abituato a frequentare i grandi mistici più dei tg, le altezze del pensiero più delle bassezze del marketing. Come dice del resto Lucio Dalla, la cui villa sorge qui a Milo, accanto a quella di Battiato: «Franco non ha mai scritto nulla d’inutile, perché tutto quello che scrive nasce dal pensiero». Glielo dico e lui sorride: «In effetti la rabbia non ha cittadinanza, nelle mie opere. È un sentimento che praticavo da bambino, poi l’età, le letture, la scoperta della contemplazione me ne hanno guarito. Anche in pagine come Povera patria o Ermeneutica, che sembrano vere e proprie invettive contro le malefatte dei potenti, il risentimento è strumentale, non coinvolge emozioni profonde. È una presa d’atto della realtà, vedo un mondo in cui opposte fazioni si massacrano a vicenda e sostengono di farlo su mandato di Dio. Così dico: vergognatevi. Ma i valori dello spirito viaggiano molto più in alto: se vivi la musica come uno stato superiore d’armonia pura, la rabbia t’appare qualcosa d’innaturale».
Viene in mente il suo ultimo film, Musikanten: Beethoven fatto rivivere «nel baratro di beceraggini, Auditel, volgarità che è il nostro tempo. Perché la potenza delle leggi divine, che hanno attraversato la musica dei grandi, è qualcosa che scioglierebbe i ghiacciai. C’è un riscatto dalla finitezza al di là della finitezza degli strumenti, ascoltando Bach o Beethoven t’accorgi che aveva ragione il filosofo, l’uomo è troppo poco per essere una cosa di Dio, ma è troppo per essere una cosa casuale. E che forse aveva torto Gurdjieff, mio maestro, nel dire che lo spirito finisce, come finisce la materia».
Beethoven, non a caso, diceva: «Chiuso nel mio labirinto, spero di trovare le ali, che mi portino verso il cielo». L’asceta Battiato dice, con altre parole, la stessa cosa: «Che altro è la musica, se non viaggiare verso un altrove, che è poi l’assoluto?». Anche se lui, alle ali di Icaro, preferisce il volo radente: il percorso orizzontale della meditazione, appreso dai grandi mistici, simile al cammino delle onde in continuo transito verso l’orizzonte. Dice un suo testo: «Emanciparsi dall’incubo delle passioni / cercare l’Uno / al disopra del bene e del male». Però non dev’essere facile, gli dico, mediare tra l’assoluto e le contingenze basse del mercato, le classifiche, la promozione. «È vero, ma io ascolto soltanto musica classica, non riesco a subire le canzonette se non sul taxi. La mediocrità m’arriva, semmai, dai tg. Ma bisogna distinguere tra la musica come ambientazione del pensiero, e la musica come rappresentazione della realtà urbana. L’una cosa mi aiuta a superare l’altra. Se riascolto la Messa arcaica, che Francesco Siciliani mi commissionò per la Sagra musicale umbra, e non lo ringrazierò mai abbastanza, vi trovo tuttora spunti di meditazione. Anche il cinema mi è servito a questo: immettere spiritualità nella realtà, per superarla». Con la forza intatta del pensiero, o con la mediazione del sentimento? «C’è un suono puro, che è sganciato dalla trasmissione di sentimenti. Si lega appunto alla meditazione, che è un altro sentire, va oltre i sentimenti umani. Nasce dal pensare, e dal tacere». Del resto lo diceva anche Rilke, «ascolta l’inarrestabile notizia che prende forma dal silenzio». «Sì, ma non il silenzio quotidiano, che è continuamente attraversato da rumori. C’è un silenzio più profondo, non fisico. C’è tutta una disciplina, per riuscire a evocarlo: disciplina della mente, ma anche del corpo».
E ci si ritrova a parlare di esoterismo, che Battiato cominciò a praticare all’alba degli anni Settanta, «mi aiutò l’ascolto di certo rock progressivo, e ancor più la lettura di Aurobindo, Yogananda, Guénon, Gurdjieff che ci insegna a trovare, oltre la volubilità del reale, il nostro “centro di gravità permanente”. E Rumi, e la scoperta del sufismo che è, tra tutte le varianti dell’Islam, la più spirituale». Cos’è l’esoterismo? «Quando mi fecero questa domanda, in un programma televisivo, risposi: vedete le mie scarpe? Se alzo i pantaloni, si scopre che non sono scarpe, ma stivali. Per dire: esoterismo è cercare le cose che non si vedono perché ti superano. Ed è, depurato dagli aspetti settari che spesso gli assegna l’immaginario collettivo, la mia vita: non saprei vivere in modo diverso». Qualcuno considera l’esoterismo come una filosofia di estrema destra, dicono che anche Hitler ne fosse un seguace. «È vero. Ma Aurobindo, che era un esoterista vero, diceva di Hitler: ecco come si lavora per il male. Per dire: in ogni forma di misticismo, nel cristianesimo come nell’Islam, s’insinuano gli infiltrati, che fanno più danni degli atei. Quanto a me, la mia scelta politica è che non amo comandare, né essere comandato: vagheggio un comunismo ideale, che non ha niente da spartire con l’Urss e con la Cina».
A proposito di Islam, chiedo a Battiato, grande esperto di cultura araba, se davvero si trovi, nel Corano, l’incitamento alla violenza denunciato da alcuni. «Rispondo: troppa gente parla per sentito dire. Se lo vadano a leggere, il Corano. Imparino a interpretare le metafore. Del resto, quanto pessimismo negazionista attraversa il Pentateuco... Anche i libri “ispirati” subiscono i ritocchi dell’uomo, guarda come certi Concili hanno imbastardito l’idea originaria del cristianesimo». Ed ecco il Battiato trasvolatore di religioni, dedito a una religiosità «viaggiante e centrifuga»: «Bella definizione - risponde -, di fatto ho ancora fame di apprendere e di crescere, e perciò non posso concedermi preclusioni. Ci sono cose che una religione coglie e l’altra no, a noi farne una sintesi plausibile. Guarda, ancora, come il cristianesimo ha censurato la reincarnazione, sostituendola col concetto di morte e resurrezione. Dopo tutto il tema centrale di Musikanten è proprio questo, la reincarnazione: Beethoven non rivive solo nella memoria, davvero Gurdjieff si sbagliava, lo spirito non finisce».
Per questo colpisce la serenità con cui Battiato, come tutti i mistici, parla della morte. Anche quando riguarda amici stretti, come Giuni Russo, Fabrizio De André. «Mi organizzo perché, quando capiterà a me, avvenga senza dolore», sorride. Poi si fa serio: «Su questi temi la nostra cultura è assolutamente impreparata, abbiamo ridotto a fatto funereo quello che dovrebbe essere motivo di gioia. Tempo fa il Dalai Lama mi disse: devo andare a trovare un amico morente. E sbottò in una grande risata. Sulle prime rimasi attonito, poi capii».
Una canzone di Battiato, Il re del mondo, s’ispira a un titolo di René Guénon e parla delle forze oscure che determinano le sorti del nostro pianeta, tenendoci «prigioniero il cuore». Nascono da noi, o ci trascendono? «Siamo schiacciati da sotto e da sopra. Siamo sottomessi a miliardi d’influenze, la malvagità che ci attraversa è la somma tra il nostro demone interno e le forze del male che ci sovrastano. Ma io credo che alla fine, a vincere, sarà il bene. Bisognerà che cresca la nostra capacità di cogliere l’assoluto, al di là delle contingenze umane». Ci si riuscirà? Battiato non si sbilancia: «Viviamo in un mondo refrattario alla spiritualità, e del resto la strada verso lo spirito è così impervia... Ma la mia esperienza di musicista mi insegna a non disperare: il pubblico non è omogeneo, non so mai se applaudono la gradevolezza delle mie canzoni o la spiritualità che me le ha ispirate. Ho la sensazione, però, che una parte del mio uditorio percepisca e condivida questa tensione, noto, a volte, un ascolto quasi religioso. Nell’89 cantai in Vaticano, davanti a Giovanni Paolo II, e per l’emozione sbagliai le parole d’un brano. Attribuirono l’infortunio alla presenza papale.
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