Politica

Battisti 2/No, un calcio al dialogo eterno

Far finta di nulla non ha senso. Lo sport da sempre è metafora della politica

Battisti 2/No, un calcio al dialogo eterno

Se potessimo, sceglieremmo noi il prossimo bestseller per il giallista Cesare Battisti, prefazione di Vargas (Fred, non Getúlio) e postfazione di Carlà: un bel racconto autobiografico, Quelqu’un m’a pris, storia di un ex terrorista che viene prelevato dall’intelligence italiana e portato a casa per essere sottoposto, come un qualsiasi mattatore di poveri cristi, al rituale di un giusto processo. Ma, non essendo gli agenti editoriali dell’ex sputafuoco dei Pac, attuale sputa-interviste, e sapendo che i nostri servizi segreti mai violerebbero il codice etico delle panciute democrazie europee, dobbiamo accontentarci di altro.

Il comportamento scandaloso del governo brasiliano sul caso Battisti merita una risposta che vada oltre i consueti balletti di scartoffie. Dichiarazioni limate dagli ambasciatori e pacche sulle spalle. E allora gli si dica, a Lula: cari voi, visto che potremmo boicottarvi solo samba, Copacabana e olio di colza, abbiamo deciso che non giochiamo a pallone. Niente partita, niente monetina per decidere a chi la palla a chi il campo, niente cori, niente inno, niente scambio di gagliardetti e marmocchi che tengono per mano i calciatori.

Perché questa amichevole sta trasformandosi, anzi si è già trasformata in un’inimichevole. Scusate, cari carioca e orecchie da mercante, caro ministro Tarso Genro, se siete persuasi che in Italia Battisti potrebbe essere ucciso perché da noi esistono ancora «apparati di repressione illegali», manco fossimo nel Brasile di Vargas (Getúlio, non Fred), ma che fate, un’amichevole con la nazionale di un Paese dove la gente viene seviziata, voi che rispettate ovunque i diritti umani, specie nelle favelas? Sapendo che film come Tropa de elite, dove si mostrano le pratiche di tortura in uso presso la polizia brasiliana, sono sporca propaganda imperialista, lo diciamo noi alla nazionale verdeoro: se ci tenete alla vostra qualità democratica, rifiutate di giocare con l’Italia. Trattateci come il Sud Africa dell’Apartheid. Sennò, sarà l’Italia a rifiutarsi.

La storia che bisogna tenere fuori lo sport dalla politica è buona per le favolette olimpioniche ma non per la dura realtà, e questo a maggior ragione vale per lo sport più popolare del mondo. I vicini di casa dei brasiliani lo sanno bene: con la vittoria ai mondiali del 1978 i generali argentini sono riusciti a rimandare il conto delle loro nefandezze, e la mano de dios di Maradona nel 1986 è valsa la rivincita simbolica sulla perfida Albione per la sconfitta alle Malvine. E, poi, la guerra serbo-croata non è cominciata con gli incidenti a una partita tra Stella Rossa Belgrado e Dinamo Zagabria? E partite come Real Madrid-Atletico Bilbao non sono il palcoscenico delle lotte tra spagnoli e baschi? Ecco qual è la valenza del calcio nell’immaginario popolare. Allora diamo una scossa alla nostra fama di eterni dialoganti: il 10 febbraio non si deve giocare.

Anzi, se si può, s’appenda perfidamente al balcone il poster di Paolo Rossi che infilza Peres.

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