Gian Micalessin
Sono tornati. Non sono i milioni pieni di rabbia per lassassinio Hariri, ma sono di nuovo tanti. Decine, centinaia di migliaia. Uomini e donne. Giovani e anziani. Cristiani, drusi e sunniti. Incolonnati nelle strade. Ammassati davanti allentrata della cattedrale di San Giorgio. Allineati in lacrime sotto le bandiere del Libano e gli stendardi della falange. Singhiozzanti davanti a quel feretro. Pronti alla nuova sfida. La sfida ai grandi scomparsi. La sfida al presidente filosiriano Emile Lahoud, ai capi di Hezbollah. La sfida a tutti gli altri amici di Damasco, compreso quel generale cristiano Michel Aoun trascinato dalle sue ambizioni presidenziali a unalleanza contro natura con il Partito di Dio. Di loro, al funerale del giovane ministro Pierre Gemayel, non arriva nessuno. Si fa vedere, ma solo per obbligo istituzionale, il presidente del Parlamento, lo sciita Nabih Berri. Per il resto è il grande deserto. Un deserto nel quale rifiorisce la coalizione del 14 marzo. Lalleanza antisiriana nata dallemozione per la morte di Hariri, cancellata dallapatia del dopo elezioni e dalla sofferenza dei 34 giorni di guerra estiva con Israele. Ora sono di nuovo lì. Tutti insieme.
Davanti al cadavere del coetaneo maronita Pierre Gemayel tocca al sunnita Saad Hariri, figlio ed erede del premier assassinato, rilanciare la promessa. «Lunità nazionale è più forte delle loro armi, dei loro crimini e dei loro atti terroristici». Poi tocca ad Amin Gemayel, lex presidente tante volte umiliato e piegato da Damasco, invocare e pretendere giustizia. «La seconda battaglia per lindipendenza è iniziata, non ci daremo pace finché i criminali non saranno portati davanti ai giudici», ripete lex presidente, che già pianse il fratello Bachir dilaniato da una bomba siriana.
A riscaldare i cuori dei cristiani del Libano contribuisce più di ogni altra parola il messaggio di Papa Benedetto XVI letto dal patriarca maronita. Un messaggio in cui il Pontefice condanna quell«atto inqualificabile» e fa sentire la sua voce per appoggiare limpegno di quanti si battono per «un Libano autonomo e sempre più fraterno».
Fuori dalla cattedrale, nelle strade i dimostranti sunniti respingono a bastonate alcuni gruppi di attaccanti sciiti, ripetono le stesse promesse dei politici cristiani, drusi e musulmani. Gran parte dei sunniti e dei drusi concordano nel vedere in questo assassinio i prodromi di uno scontro più insidioso. Quello per la conquista del potere studiata da Hezbollah. Quello per la cancellazione del tribunale internazionale chiamato a condannare i colpevoli dellassassinio di Hariri. Quello per la creazione di un asse sciita dal sud del Libano al confine iraniano capace di privare di ogni potere reale sunniti e cristiani libanesi. «Il nostro sospetto è che la Siria cerchi con questassassinio di distruggere lunità nazionale, impedire la convivenza e alimentare lo scontro tra le diverse comunità», ripete il sunnita Ghada Hakim.
La grande paura si materializza la sera, quando torme di militanti sciiti bloccano la strada per laeroporto in quello che sembra linizio del grande braccio di ferro. Ma per tutta la durata delle esequie le bandiere libanesi mescolate a quelle falangiste fanno veramente riassaporare i giorni della «dolce rivoluzione» innescata dalla morte di Hariri. Quella rivoluzione di velluto costrinse i siriani ad abbandonare il Paese dopo trentanni di occupazione.
Le folle incolonnatesi dietro la salma di Pierre Gemayel sono un monito per il segretario generale di Hezbollah Hasan Nasrallah e per le sue promesse di far cadere il governo mobilitando milioni di militanti. «Nessuno seppellirà la nostra domanda di verità e giustizia, la nostra richiesta di un tribunale internazionale», promette alla folla il leader druso Walid Jumblatt, lo stesso che nei giorni precedenti lassassinio Gemayel segnalava il rischio di un colpo di Stato.
La domanda per un tribunale internazionale capace di far luce anche sullassassinio di Pierre Gemayel è già stata approvata allunanimità dal Consiglio di Sicurezza dellOnu riunitosi in seguito alla lettera di richiesta inviata dal premier libanese Fouad Siniora.
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