Bella senz’anima nei suoi primi 50 anni questa Europa laicista non ha futuro

Parole, tante belle parole, look eleganti, fuochi d'artificio, serate di gala. La nostra Europa ha cinquant’anni. Raccoglie Paesi e Popoli, come mai in passato. Vanta istituzioni, poteri, autonomia, forza economica. Sembrerebbe, insomma, più in forma che mai. Ma è un’Europa senza anima, incapace di scaldare i cuori e di trascinare passioni. Sembra un’Europa più attenta alle forme, alle esteriorità; un'Europa che si presenta molto bella, elegante, ma che è così poco «popolare» tra la gente.
Al di là delle dichiarazioni di principio che non possono appassionare: cos’è oggi l’Europa? Quale ruolo nello scacchiere internazionale vuole giocare? Quale è la sua dimensione culturale? Cosa vuole proporre ai suoi nuovi membri, cittadini e residenti? Cosa vuole dire Europa? Il motivo di tanta incertezza è chiaro: si è voluto costruire la nuova Europa su modelli puramente tecnocratici e burocratici, rifiutando l’idea che «fare l’Europa» voglia dire impegnarsi in un progetto per una società migliore, con una sua identità popolare, percepita nella quotidianità, tra la gente. Il fatto è che viviamo in un’Europa dove prevale un’impostazione «laicista» della convivenza sociale, solo apparentemente neutrale, ma in realtà assolutamente ideologica. Pericolosissima.
Nel nome di una fantomatica uguaglianza, tutto è uniformato, annullato, spersonalizzato. Ed il nichilismo sta trionfando, ogni giorno di più. Il modello laicista genera mostri, nel nome di un «antropocentrismo» fondato sulla finitezza dell’uomo, sulla sua dimensione più «piccola» legata al soddisfacimento dei bisogni più immediati, sulla «pancia» dell’uomo, e dimentica come ogni modello di convivenza istituzionalizzato dovrebbe essere uno strumento e non uno scopo fine a se stesso. Il dramma dei nostri giorni è che viviamo in un’Europa che rifiuta il concetto di appartenenza. Le identità forti terrorizzano. Vanno combattute.
Chi appartiene è il «male», da lasciare ai margini, perché nocivo per una collettività indistinta e avaloriale. Così si ricreano moderni ghetti, dove gli uomini che scelgono di essere se stessi, di andare a fondo alla loro irripetibile individualità, di essere responsabili di se stessi e della collettività di cui sono parte, sono confinati e impossibilitati a dialogare costruttivamente tra loro. Così si evita di costruire un modello sociale basato sul diritto di essere se stessi, sul riconoscimento di ogni specifica individualità e sul legame costruttivo che si genera nell’incontro tra le alterità.
Questa concezione di identità sociale richiederebbe laicamente un’Europa che scaturisca «dal basso», da ciò che è più vicino all’individuo per come è, e non per come qualcuno la vorrebbe. Ecco la sfida dei nostri giorni: edificare un’Europa che faccia dialogare le cellule che, dopo la famiglia, più sono prossime ai bisogni, ai desideri e all’identità dell’uomo. E questi valori vanno ricercati nelle famiglie, nelle comunità, tra gli amici, nelle associazioni di volontariato, ovunque le persone siano legate, non dallo scambio di ricchezza o potere, ma dall’impegno reciproco, o meglio, da una più vasta causa comune.
In altre parole, dall’eterogeneità che descrive l’attuale quadro sociale e che molti non vogliono vedere, deriva una considerazione apparentemente paradossale: se si deve offrire un nuovo e originalissimo valore che serva da cemento per un’Europa realmente laica e multiculturale, esso non va cercato nella cultura - ovvero nella non cultura - della maggioranza, bensì in quella delle minoranze, in quel meraviglioso coacervo determinato dall’incontro delle «appartenenze» trasformate in nuovi operatori culturali e politici, in grado di dare al nostro mondo, nel suo insieme, nuovi motivi di omogeneità, di identità, di fiducia. Si tratta allora di costruire un modello sociale che riconosca come fondanti determinati valori e soprattutto determinati bisogni. E non c’è dubbio che il principale di questi bisogni è quello religioso.
Questo perché le religioni legano le persone le une alle altre e tutte insieme a Dio. Formano, in quanto espressioni di significato, comunità, creano unità, sistemi, entità uniche. È questo che le differenzia dalla politica. La differenza è la casa della politica, ed è ciò che la religione trascende. La religione lega in comunità, la politica media.

Ed è proprio la religiosità, per questo suo tendere all’unità, che può permettere di vincere la sfida del vero pluralismo, della laicità, senza omologare «le appartenenze» ma rendendole la principale forma formans della società.
*Presidente Unione comunità
ebraiche italiane

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