Il bello della libertà non si racconta, si vive

Le conversazioni con i figli sono sempre molto istruttive. Mia figlia mi riporta i discorsi che sente fare dalle sue amiche a proposito di sessualità. L’opinione diffusa è che la Chiesa sia una specie di entità preposta a impedire ogni libertà e ogni felicità. I legami, gli impedimenti, le obiezioni che la chiesa pone alla libera espressione dell’umanità avrebbero dunque un’unica origine: il bisogno di dominare le coscienze.
Di norma, a questi discorsi il cattolico risponde con argomenti non privi di validità. Uno di questi riguarda la cultura dell’edonismo che impera in ogni dove, e che fa coincidere la libertà con il fare quello che si vuole e la felicità con l’istintività. Esiste insomma una cultura del «tutto-e-subito» che, alla fine, produce poca felicità, e il cui valore non sta nella felicità che produce - perché, come si dice, si deve pur avere anche il diritto all’infelicità (boh) - ma nella persuasione che un uomo è tanto più se stesso quanto più è libero da ogni legame. Contro questa persuasione è normale che un cattolico esprima i propri dubbi. Tuttavia io credo che una discussione così impostata potrebbe procedere all’infinito senza nessuna soddisfazione da parte dei contendenti. Meglio fermarsi un attimo, prendere un caffè insieme e porsi, mentre giriamo il cucchiaino nella tazzina, una questione in più.
La questione è: quanto è bella la vita che faccio? Oppure: di cosa parliamo quando parliamo di libertà? Sembrano due domande diverse, ma non lo sono affatto, è la stessa cosa. Quando parliamo di libertà parliamo di una concezione astratta, di un modello, oppure di un’esperienza personale. Come posso parlare di libertà se non sono libero, o non lo sono stato almeno una volta? Se la parola «libertà» si riferisce a un’esperienza, allora la prima evidenza non è quella di un’argomentazione, ma quella della bellezza. La mia vita è bella se sono libero. L’argomento vincente è la bellezza, il gusto della vita. Non è un problema di dialettica, ma di evidenza. Se a una persona non piace niente, può usare tutti gli argomenti del mondo, a chi importa? Un amico musulmano, un paio di mesi fa, mi diceva: «Sai cos’è che mi dispiace? Che l’immagine dell’islam nel mondo sia un’immagine cupa, rigida, violenta, e che l’immensa bellezza della mia religione non riesca a comunicarsi».

Questa comunicazione di sé - in un tempo di depressione dell’io - è il punto cruciale. La bellezza del cristianesimo, la bellezza della vita dei cristiani è sempre il più infallibile degli argomenti. Se no, son discorsi.

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