Ben Affleck: "Voglio essere un bravo papà"

L’attore in prima linea nelle iniziative umanitarie: do l’esempio alle mie figlie. "Come star ho spazio sui media e sfrutto l'opportunità". L'ultimo ruolo: "Interpreto un politico che ha una morale multicolore"

Ben Affleck: "Voglio essere un bravo papà"

Los Angeles - Politica e giornalismo. Privatizzazione della cosa pubblica e spionaggio industriale, schegge impazzite dell’apparato militare e debolezze umane. C’è tutto ciò in State of Play, un thriller investigativo ispirato all’omonima miniserie della Bbc trasportata con successo nella Washington contemporanea, o meglio, pre-obamiana, interpretato da Ben Affleck, Russel Crowe, Rachel McAdams e Helen Mirren. Ben Affleck è un giovane politico in ascesa deciso a svelare gli abusi delle società mercenarie infiltrate nel ministero della Difesa (alla Blackwater o Halliburton, per intenderci). E l’attore, ardente sostenitore di Barack Obama durante la campagna elettorale, non si fa certo pregare a dire la sua sugli argomenti trattati nel film, partendo dal sottinteso che il potere corrompe. «Che il potere possa corrompere - dice - lo abbiamo visto più volte in passato, quindi la massima è probabilmente corretta. Ma più che il potere credo siano l’ambizione sfrenata e il desiderio di potere a corrompere».

Si è divertito a interpretare un politico molto meno «liberal» di lei?
«La preparazione preliminare è stata molto interessante, specie le visite al Congresso. Volevo capire il comportamento umano di chi è in politica a quel livello, vedere i loro uffici, vedere come camminano, cercare di scavare un po’ nelle loro vite e nel loro modo di funzionare. Devo dire che non ho trovato grandi differenze tra democratici e repubblicani, penso che il fatto di essere eletti in Congresso li accomuni più che separarli. Ma non mi sono basato su nessun politico in particolare, ho preso un po’ da tutti, anche perché non volevo offendere nessuno».

Che cosa le è piaciuto del suo personaggio?
«È eticamente ambiguo, complicato, non è bidimensionale. Quando lo vedi la prima volta credi di conoscerlo ma il film gli permette di mostrare la sua morale, che è a strisce di colori diversi».

È ancora interessato a entrare in politica, un’idea a cui aveva accennato spesso in passato, o pensa di poter essere più utile e di avere più influenza nella sua posizione attuale?
«Questo film mi ha ricordato quanto amo il mio lavoro e quanto apprezzo e rispetto il lavoro dei politici che prendono il loro incarico sul serio, vale a dire fare le leggi e governare nel nome del popolo».

In passato si è impegnato in campagne a favore di vari candidati, ma ora il suo centro di interesse sembra essere l’Africa. Come mai?
«La prima volta che ho letto un articolo sul Congo e la regione dei Grandi Laghi mi sono reso conto che molta gente, io compreso, non era al corrente della situazione in questa regione dell'Africa: i morti, i rifugiati, un dramma che dura da una decina di anni lontano dai riflettori dei media. Ho pensato che forse, grazie al mio profilo mediatico, potevo dare una voce a questa gente. Mi sono informato, ho viaggiato, e ho sfruttato tutte le possibilità a mia disposizione per conoscere la regione, la sua storia, le persone che ci vivono e ci lavorano perché non volevo essere un dilettante. Quando mi sono sentito pronto ho iniziato a parlare coi media, a lavorare con organizzazioni non governative attive in loco, a raccogliere fondi, ho scritto un pezzo per Time e fatto un cortometraggio per l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Cerco di fare il più possibile perché penso che la comunità internazionale debba riconoscere le responsabilità comuni e agire a livello globale per risolvere le varie crisi che ci sono nel mondo».

Come è scoccata questa scintilla umanitaria?
«Ero arrivato a un punto della mia vita in cui mi sono accorto che grazie alla mia posizione ho un accesso privilegiato ai media. E mi sono chiesto come stavo vivendo la situazione: questa opportunità, la stavo sprecando oppure no; stavo facendo qualcosa di cui potevo essere fiero? E con la consapevolezza che la fama non dura per sempre ho capito che dovevo usarla invece che esserne divorato o sfuggirla o servirmene solo per la mia carriera. Ho cercato e trovato cose importanti per me e ho iniziato a investirvi tempo ed energia perché credo che gli individui possano fare la differenza. Abbiamo un tempo limitato su questa terra, siamo tutti interconnessi in quanto esseri umani, e penso che dobbiamo aiutarci, lavorare duro, e contribuire alla collettività. Sicuramente il fatto di essere diventato padre mi ha dato una prospettiva più a lungo termine. Questo è il tipo di persona che volevo diventare e questo è l’esempio che voglio dare alle mie figlie: insegnare loro che dobbiamo pensare anche agli altri e impegnarci per il benessere e il futuro del mondo. Spero che loro non aspetteranno i 30 anni per farlo, come il papà».

Ha fiducia nel futuro del mondo e nelle scelte del presidente Obama?
«Si, sono ottimista, e penso sia importante essere ottimisti. Uno dei pericoli maggiori al momento è quello di farsi invischiare nel ciclo del pessimismo. L’attuale situazione economica è dolorosa ma se si pensa che le cose peggioreranno, se ci si blocca invece di reagire, allora ci saranno più problemi, e ciò creerà ulteriore pessimismo. È un circolo vizioso.

E come molti altri sostengo e credo in Obama, è una persona intelligente che mi sembra sulla buona strada. E credo anche che lentamente il mondo si stia avvicinando, anche se spesso si fanno due passi avanti e uno indietro».

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