Ha scritto Sandro Bajini: «È questo che m’inquieta:/ non puoi muovere un passo / che inciampi in un poeta». Si riferiva alle case editrici, ma l’epigramma dispettoso cade a fagiolo per la sceneggiatura di La tigre e la neve, appena pubblicata da Einaudi con sontuosa prefazione di Roberto Benigni (infatti la Repubblica l’ha anticipata in prima pagina). Ora non è un segreto che il film, venuto bruttino e freddamente accolto dal pubblico, fosse un centone: cioè un denso collage di citazioni in versi, da Montale a Prévert, da Broch a Boye, da Bradbury, cucite insieme con erudita/esibita acribia, sì da trasformarlo in un gioco culturale a enigmi, in un elogio della Poesia intesa come pratica di vita.
Trapunta di nuove citazioni, la prefazione assomiglia sulle prime a una di quelle famose rubrichette domenicali di Biagi; poi, a mano a mano, emerge il senso dell’operazione letteraria. Evocando il Picasso di «Io non imito, copio», Benigni ne fa un divertissement alla Eco, una riflessione sul senso e i limiti della creazione artistica. Purtroppo, a forza di omaggiare gli dei della rima, l’attore-regista dimentica ciò che era: un comico ruspante e irriverente al quale una laurea dantesca sembra aver dato alla testa, spingendolo nell’empireo della stupefazione perenne.
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