Roma Il dilemma a questo punto è se sia giapponese o americano. Forse è l’ultimo dei mohicani, quello che resiste quando tutto sembra perso. Italo Bocchino ha fatto da avvocato difensore, nei salotti tv e sui giornali, di Fini e Tulliani, finora. Fino all’ultimo, fino a ieri sera quando la dichiarazione - molto netta - del ministro di Santa Lucia, l’autore della presunta lettera-patacca, ha spiegato che la lettera è vera e non patacca. Niente, Bocchino non ha fatto una piega e, come l’ultimo giapponese, è rimasto in trincea con l’elmetto in capo, per sparare le ultime cartucce. «Il quadro non cambia - ha azzardato Bocchino - se Santa Lucia ha le prove perché non le ha messe nero su bianco? Resta la certezza che Tulliani non è il proprietario di quelle società».
Un bel salto nel vuoto, che conferma Bocchino come il pretoriano più finiano tra i finiani, quello che si è esposto di più, anche al rischio di figuracce. L’ultimo giapponese, ma anche il primo degli americani. Ormai anche lui, come il suo nemico Cosentino, si potrebbe soprannominare «’o Americano». È stato lui a buttare lì, da Santoro, quattro parole sugli Usa che punterebbero su Fini, su certe indagini commissionate non si sa bene a chi e altre cosettine di questo tenore. Nessuno, lì per lì, gli ha fatto una domanda: le spiacerebbe spiegarci la natura di questi presunti rapporti tra finiani e Usa? Le «indagini» di cui parla, sono state forse chieste a loro? Vorrà mica dirci che la Cia lavora a fianco dei finiani per disarcionare il Cav, troppo amico di Putin e Gheddafi? Giusto per sapere. Chiunque siano gli informatori di Bocchino, americani o no, devono essere delle mezze chiaviche, come si dice nella sua Napoli, visto che hanno attribuito la lettera del ministro caraibico a tale Valter Lavitola (ieri a Palazzo Grazioli), con certezza pressoché assoluta. Sbagliato, era del ministro. Però succede che le «indagini» e i «dossier» fatti confezionare dai finiani non siano «dossieraggi» o «patacche» anche se si rivelano del tutto falsi, mentre quelli del Giornale lo sono a prescindere, anche se si rivelano del tutto veri. E se l’autore della lettera dice che la lettera l’ha scritta lui, non importa, per Bocchino rimane una patacca.
Forse vale la pena dubitare, invece, dei millantati rapporti tra Fini e Casa Bianca. L’altra sera Bocchino si è spinto nel campo della geopolitica. «Vede, Santoro, la nostra politica estera è molto spinta su due rapporti, Russia e Libia. Questo genera preoccupazioni da parte di altri Paesi che guardano invece con attenzione a chi, come Fini, parla di una politica estera atlantista, europeista, multilateralista» etc. Insomma le potenze straniere, in primis Usa, guarderebbero a Fini come referente privilegiato in Italia. Questa sì, ad una prima indagine (come dicono gli avvocati di Tulliani), sembra una patacca. Le parole di Bocchino, e le insistenze che i finiani stanno facendo su questa tesi anche a livelli istituzionali, sta creando «irritazione» - questa la parola usata dalla nostra fonte - tra le autorità americane attente alle cose italiane. Il tentativo di Fini di accreditarsi come interlocutore degli Usa sembrerebbe non solo privo di fondamento, ma anche piuttosto sgradito.
Del resto gli americani non è che si lascino infinocchiare così facilmente. Atlantista, Fini? Uno che andò per la prima volta negli Usa, in forma ufficiale come An, solo nel 2005, portato da Mirko Tremaglia? Quella volta, al cimitero di Arlington, sulle tombe dei caduti coi marines sugli attenti, Fini disse al vecchio Tremaglia (fu lui a raccontarcelo): «Vedi Mirko, anche i marines rendono onore a un combattente di Salò». Insomma un americano dell’ultima ora, come Bocchino del resto. Che è più abile sul territorio nazionale, in Campania soprattutto. Dove fa l’editore, indirettamente. Dice che non è più editore del quotidiano Il Roma. È vero, non più. C’è solo sua moglie, Gabriella Buontempo, con una quota rilevante del capitale (scovata dalla Voce delle voci).
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