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Bolt fa una scemata ma è sempre il Re e oscura l’oro di Blake

Ci voleva un colpo di fantasia. Ci ha pensato lui. Forse ha esagerato. Ancora una volta Usain «il ragazzone» Bolt è andato un po’ oltre, oltre ogni muro, al di là di ogni nuvola della fantasia. Un altro record? Quasi. Nooo! Bolt nooo! Chissà quanti lo avranno gridato nel mondo, un secondo, nove secondi ad occhi sgranati, increduli, perplessi. Solo Glenn Mills, il suo mastodontico allenatore, stravaccato su una sedia che pare non abbandoni mai, se n’è rimasto immutabile, impavido, pacioso, quasi avesse già preso una decina di camomille. Quello aveva compiuto la stupidata del secolo e lui nemmeno una smorfia. D’improvviso sulla pista di Daegu si è aperto un vuoto, un oceano che si divide, una voragine sotto i piedi del mondo dell’atletica. Il tanto per sentirsi soli. E Bolt per sentirsi....“un pirla” direbbe Mourinho.
La maledetta leggina dell’atletica che sta facendo morti e feriti in questo mondiale ha colpito anche lui. Si chiama falsa partenza ed è più lacerante di un pugno da ko. Basta un nulla, un attimo di deconcentrazione, un brivido che ti traversa la schiena, un brutto pensiero nella testa. Basta un movimento scomposto o un allentamento della pressione del piede. E sei fritto. Forse Bolt..., forse stavolta temeva qualcosa o qualcuno, forse cercava la partenza perfetta, forse cercava la partenza che lo mettesse tranquillo, forse sapeva di avere accanto un tipo che si allena ogni giorno con lui e che sta sbuffandogli dietro da tempo per passargli davanti. Yohan Blake ce l’ha fatta, così giovane e così performante, così giamaicano ma così diverso da Usain, così sorpreso dal perdersi l’amico della corsia accanto e così fortunato, così compagno da starne male per il tempo di un battito di cuore e così avversario dal raccontare a tutti: «È meraviglioso, aspettavo questo traguardo da una vita. Ognuno ce la può fare, bisogna pregare».
Bolt forse non ha mai pensato che basti pregare. La sua preghiera, il suo vivere erano piccole buffonerie. Gli altri tesi, concentrati, preoccupati ai blocchi, e lui intriso di felicità e guasconeria per il piacere del pubblico e delle telecamere. Stavolta si dev’essere morso la lingua. Magari avrebbe voluto tagliarsi le mani ed anche i piedi. Si è limitato a strapparsi la maglia di dosso, urlare qualcosa, guardare il cielo, sbattere i pugni nel vuoto. Aveva appena segnalato il suo pensiero con i soliti gesti. Diceva: li vedete questi due a fianco (l’americano Dix e appunto Blake)? Non se ne parla. Guardate me, filo e vado. Ci ha provato con quell’attimo d’anticipo. Ed ha vinto ancora lui. Chi mai dimenticherà il giorno in cui Bolt ha buttato la partenza e una delle gare che doveva portarlo nella leggenda. Leggenda? C’è già, questo è chiaro con quel pedigree di titoli e record. Questa squalifica arricchirà i racconti. Si parla di chia ha perso e non di chi ha vinto. È una incredibile legge dello sport fatta per pochi fuoriclasse. Per una volta Usain è stato più umano e meno marziano. Ma sempre predestinato alla grandezza, qualunque cosa gli capiti.
Cacciato dalla legge della falsa partenza, oggi già contestata: un tempo bisognava sbagliarne due per essere squalificati. Ora basta la prima e ad ogni «falsa» si perde un atleta. Pesante! Lo dice Kim Collins, vecchio e indomabile re della velocità, 35 anni per conquistare un bronzo che conclude la sua parabola, dopo l’oro di Parigi 2003 e il bronzo di Helsinki 2005, facendone il più anziano medagliato dei 100 mondiali. Kim incassa e ringrazia. Ma... «Bisogna tornare al passato, quando la prima falsa partenza veniva abbonata. Bisogna tornare a concedere una chance a chi sbaglia». E così Walter Dix, che ha raccolto un argento forse insperato vista la banda dei giamaicani. «Una regola sbagliata che ci sta uccidendo». La pena di Bolt è la pena di tutti. Yohan Blake dovrebbe invece farne una bandiera. Nelle semifinali aveva fatto fuori un avversario nello stesso modo: via l’inglese Dwain Chambers, e lui in volo con il miglior tempo (9”95). Le semifinali, per il vero, avevano detto che Bolt non sembrava quello splendido extraterrestre degli anni passati. O forse non voleva schiacciare sul gas: 10”05, più bravo di Lemaitre ma con tempi e faccia di uno qualunque. Era pretattica? Un dubbio che tutti si terranno fino ai Giochi di Londra. Un dubbio che lui ha scacciato con toni infastiditi di chi si porterà una cicatrice. «Cercate lacrime? Non ne vedrete sul mio viso. È tutto ok, ho bisogno di tempo, ci vediamo venerdì per i 200».
Ci saranno ancora tutti. Blake, che ha un passato da ragazzo prodigio ma è finito in una storia di doping, un po’ pasticciata (un medicinale non citato sulle liste Wada, ma comunque dopante), un po’ sospetta, che l’ha messo al bando per tre mesi. E Lemaitre il ragazzo pallido, ancor più bianco latte al blocco, che ha sperato nel colpo: finalmente un bianco sul podio. L’ha mancato per un nonnulla. Blake (9”92) imprendibile dopo una bruta partenza. Collins un siluro a miccia corta. Gli altri a un soffio. Ma la storia l’aveva già fatta Bolt.

Non c’era bisogno d’altro.

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