Bonnard, il fascino (in)discreto della borghesia

«La cosa importante non è dipingere la vita ma rendere vivente la pittura». Con queste parole Pierre Bonnard, parigino di Fontenay aux Roses, prese le distanze una volta per tutte dalla grandeur francese d’inizio ’900. Sia quella figlia dei Salon dove si esibivano i pittori della Belle Époque, sia quella degli Impressionisti per i quali l’arte doveva fotografare solo l’attimo fuggente, sia quella fauve che inneggiava alla gioia di vivere. Bonnard, avvocato pentito poco avvezzo ai bagordi e appassionato di litografie, preferì lo splendido isolamento un po’ snob dei «profeti» Nabis, cenacolo sorto attorno al simbolismo di Paul Serusier e agli esotismi di Paul Gauguin. Nel gruppo, Bonnard fu colui che più di tutti seppe incarnare lo spirito e gli stilemi di una breve corrente che diede un’interpretazione anomala al Modernismo: quella di un’arte che guardava al presente rifugiandosi in un passato psichicamente lontano.
A lui la Fondazione Beyeler di Basilea dedica in questi giorni la più importante retrospettiva dopo quella del 1984 al Centre Pompidou di Parigi, che lo consacrò definitivamente nell’Olimpo dei più grandi pittori del Novecento. E non è un caso che ciò avvenga nell’edificio costruito da Renzo Piano su richiesta del grande mercante svizzero scomparso nel 2010, che nel dopoguerra iniziò la sua incomparabile carriera di collezionista proprio con Bonnard. Il Beyeler degli esordi, che dopo la trasformazione della libreria di Oskar Schloss in uno spazio d’arte iniziò a esporre soltanto stampe giapponesi, restò affascinato dal colto e raffinato decorativismo che Bonnard attingeva alle xilografie orientali, misto a un classicismo che egli sapeva impregnare di una sorda inquietudine. I suoi soggetti facevano parte di una quotidianità borghese assolutamente contemporanea, pur limitata all’universo privato di un uomo che amava moltissimo le proprie dimore: oltre agli atelier parigini, la casa «Ma Roulotte» in Normandia e la villa «Le Bosquet» nella soleggiata Costa Azzurra. Le sue dimore, appunto. E le sue donne, soprattutto l’amante sposa Marthe, che adorava ritrarre nella stanza da bagno o davanti allo specchio in camera da letto, preferibilmente in desabillet.
A Basilea questi mondi - ai quali vanno aggiunti gli esterni dei giardini dove è più evidente la contaminazione impressionista - sono ben rappresentati da una sessantina di opere maggiori provenienti dal Musee d’Orsay, dalla Tate di Londra, dal Centre Pompidou, dal Moma di New York e da altre importanti collezioni. Interni domestici, sale da pranzo, vasche da bagno, nudi in scurto e ritratti borghesi con annessi cagnolini dove i chiaroscuri contrastano con cromatismi improvvisamente accesi e dissonanti, e dove gli effetti delle luci esterne provenienti da immancabili finestre sembrano appiattire l’immagine a uno sbiadito ricordo della realtà. Ecco allora esposte composizioni enigmatiche come L’uomo e la donna del 1900, che ritrae Bonnard con Marthe, e Autoritratto (il pugilatore) del 1931. Oppure i dipinti prestati dalla Tate, tra i quali Caffè (1915) e Il bagno (1925), soggetto a cui si dedicò intensamente a partire dal 1908. Tra le opere provenienti dagli Stati Uniti, ecco Il giardino selvaggio (La grande terrazza) (1918) dalla Phillips Collection di Washington DC, La sala da bagno (1932) dal MoMA di New York, o La terrazza a Vernon (1920-39) dal Metropolitan Museum of Art di New York.
Non mancano neppure le affiche e le litografie per la Revue Blanche di cui Bonnard fu assiduo collaboratore, e le esotiche decorazioni per mobili e paraventi.

Tutte digressioni che in vita e in morte lo fecero etichettare da certa critica contemporanea come ingenuo cronista della vita quotidiana altoborghese. Della quale, invece, riuscì a cogliere l’essenza di un inevitabile declino.

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