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Bossi tace ma la Lega ha già pronti i forconi

RomaNervi a fior di pelle, e più che mai, dopo l’attacco frontale mosso da Fini all’asse Lega-Pdl e al governo «troppo leghista». La linea, per tutto il giorno, resta in silenzio, rotto a un certo punto da un Bossi sibillino che preannuncia tempesta: «Per ora sto dietro il cespuglio...», cioè mi tengo per me quel che penso, ma presto parlerò... Il segretario ha fatto un giro di telefonate ai colonnelli per raccomandarsi di non esporsi con dichiarazioni, «lasciate che parli io con Berlusconi e poi parliamo» ha detto il capo ai fedelissimi. L’incontro col premier dovrebbe essere questa sera, ma prima ancora il capo della Lega riunirà i suoi in via Bellerio, per un vero e proprio consiglio di guerra. Fuori e dentro il quartier generale leghista la tensione è alta perché la base, a questo punto, si aspetta un ordine chiaro: basta col teatrino, subito al voto.
L’insofferenza per le manovre dei finiani, percepiti nel Carroccio come una replica dei partitini della Prima repubblica radicati nel Mezzogiorno (alla convention di Bastia Umbra la lingua ufficiale era il campano...), ha raggiunto vette mai toccate finora. Pur nel coprifuoco, qualche parlamentare parla, senza comparire ufficialmente, per far sapere che «Fini si è rivelato l’ultimo portaborse della Prima repubblica. La Lega non accetta lezioni da un personaggio così». A questo punto soltanto parlare di governo tecnico evoca scenari alla Braveheart nel Carroccio: «Andremmo con i forconi al Quirinale» dice fuori dai denti un deputato della Lega, «entriamo a Palazzo Chigi e ci portiamo via anche i mobili» azzarda un altro leghista pensando all’eventualità di un inquilino sgradito, messo lì dai «ribaltonisti appoggiati dai poteri forti».
Intanto si scaldano i motori e si lucidano le carrozzerie dei pullman pronti a partire per Roma, dal profondo Nord, in caso di scherzi. Ma è l’eventualità peggiore, messa in conto da Bossi che tuttavia sta lavorando alla contromossa. «È Fini che ha messo su tutto il casino ed è lui che deve prendersi la responsabilità di far cadere il governo» filtra dallo staff del segretario federale. Ovvero non sarà la Lega ad assumersi l’onere di provocare la crisi, anche se in modo concordato, ma dev’essere Fli, che ha condotto la maggioranza in un cul de sac. Il «patto di legislatura» nei termini proposti da Fini è per la Lega una proposta irricevibile, dal momento che punta a smontare il federalismo e a mettere il Carroccio in un angolo, spostando il baricentro del centrodestra verso un centrismo finian-casiniano. Scenario che i leghisti guardano con orrore.
Quindi, a meno di colpi di scena dopo l’incontro col Cavaliere, la via maestra per la Lega resta il voto. Per due ordini di motivi. Primo, permetterebbe di pesare le reali forze in campo (la Lega crescerebbe, mentre le percentuali di Fini sarebbero molto inferiori al peso politico che ha assunto Fli in questo frangente) e spazzerebbe via lo spettro di un esecutivo tecnico. Secondo, le urne permetterebbero anche di regolare diversi conti interni aperti nel partito e nei gruppi parlamentari, con una selezione tra gli attuali eletti e l’immissione di forze nuove in Parlamento (forse, con assetti anche differenti).
Un voto anticipato inoltre non metterebbe in pericolo il federalismo fiscale. Non c’è questa preoccupazione nei vertici leghisti, per una ragione tecnica. Con un’elezione a febbraio/marzo i decreti delegati sarebbero già approvati, perché un governo dimissionario, con la prerogativa del disbrigo degli affari correnti, avrebbe tutto il potere di approvare gli ultimi due «pezzi» della riforma federale, quello (fondamentale) sui fabbisogni standard e poi quello relativo alla fiscalità di Comuni, Province e Regioni. Una maggioranza parlamentare non serve, perché le Commissioni coinvolte hanno solo il potere di emettere pareri non vincolanti, ma è poi il governo che deve emanare i decreti delegati. «C’è tempo fino alla primavera del 2011, come prescrive la legge delega del 2009 - spiega il senatore leghista Paolo Franco, vicepresidente della commissione bicamerale per l’Attuazione del federalismo - Ed entro gennaio si può ragionevolmente pensare che avremo finito».

Quello sarebbe il santino elettorale con cui Bossi farebbe campagna elettorale, dopo una crisi dovuta esclusivamente a Fini. Un cavallo di battaglia con cui ramazzare altri voti, non solo al Nord. Bisogna solo vedere se Bossi vorrà e potrà chiamare apertamente il voto, una volta uscito dal cespuglio.

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