Un braccio di ferro che dura da 10 mesi

È la primavera del 2005 quando inizia la vicenda dei rifugiati di via Lecco, arrivati dall’Africa in città passando per Lampedusa. Occupano un’ex caserma in viale Forlanini, e da quell’area circa 200 profughi si trasferiscono a metà ottobre in via Lecco 9, dove occupano uno stabile abbandonato da 19 anni. Durante la permanenza illegale nel palazzo vengono «coccolati» dai centri sociali e dal candidato sindaco dell’Unione Dario Fo, che insieme alla moglie Franca Rame lancia un appello ai cittadini e con la ramazza aiuta gli immigrati a ripulire la casa occupata illegalmente. I rifugiati - sudanesi, etiopi ed eritrei, 267 persone in tutto - dicono no a tutte le proposte di accoglienza del Comune, e anche il 27 dicembre, quando la polizia li costringe a sgomberare il palazzo dopo 42 giorni di occupazione, preferiscono passare la notte all’addiaccio in via Lecco, piuttosto che accettare i letti al caldo allestiti in diverse strutture da Palazzo Marino. Il giorno dopo è ancora muro contro muro: gli extracomunitari prima salgono sui bus dell’Atm e raggiungono la sede della protezione civile di via Barzaghi, dove vengono identificati e smistati nelle varie strutture di accoglienza, poi solo 55 di loro accettano di essere trasferiti nei container in via Di Breme. Gli altri marciano in corteo fino in piazza Duomo e depongono i bagagli davanti alla cattedrale, con l’intenzione di trascorrere lì la notte. La passano invece nell’aula del consiglio provinciale, dopo che il presidente Filippo Penati apre per loro le porte di Palazzo Isimbardi.
Solo il 30 dicembre, dopo un’altra giornata di polemiche, i rifugiati accettano le soluzioni offerte dal Comune, e vengono accolti in via Di Breme, via Pucci, via Anfossi e viale Ortles. Il 4 gennaio, tornano ad alzare la voce: «Dateci la casa entro il 10 gennaio, o torniamo in piazza». Il giorno dopo Palazzo Isimbardi offre 60 posti nell’ex convitto di viale Piceno, Palazzo Marino è pronto ad ospitare 50 eritrei nell’ex asilo di viale Fulvio Testi. Una settimana prima del trasferimento, l’11 gennaio 62 sudanesi fuggono da viale Ortles e tentano di oltrepassare nella notte il confine svizzero, ma vengono bloccati a Chiasso.
Anche chi rimane in città prosegue la rivolta: lunedì, nel giorno in cui da via Pucci devono essere trasferiti in viale Fulvio Testi, una cinquantina di eritrei raggiunge in corteo Palazzo Marino, alza ancora il tiro, e solo alle 22 abbandona il presidio e accetta di raggiungere la struttura.

Ieri mattina invece i 62 sudanesi rispediti in Italia dalle autorità elvetiche rifiutano per l’ennesima volta l’offerta del Comune: accoglienza temporanea in viale Ortles e successivo trasferimento nel convitto di viale Piceno. Piuttosto che seguire orari e regole del dormitorio, preferiscono dormire all’aperto.

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