Roma - Un altro bastone per la gioventù, indebolita dal mondo cane (e nello stesso anno del trionfo di Clint Eastwood, ottant’anni di tenuta stagna), adesso è Philippe Leroy, classe 1930. L’attore parigino, infatti, osso duro dal sangue blu (ha fatto la guerra d’Indocina, nel ’51, e quella d’Algeria, nel ’58, e ciò gli valse l’ostilità francese) indica la via dell’impegno e della volontà («unione perfetta per avere tutto, nella vita») nel film di Angelo Antonucci Nient’altro che noi! (da domani nelle sale), il primo lavoro italiano sul bullismo maschile. «Mio figlio Philippe jr. tira di boxe e non teme gli attaccabrighe a scuola», spiega l’attore, che per festeggiare i 75 anni si è buttato col paracadute. «Faccio molta palestra», dice, mentre castiga l’aria muovendosi alto e marziale: sa d’avere un fascino intatto, nonostante l’artrite. I ragazzi protagonisti di questa commedia corale (patrocinata dall’Associazione Nazionale Pedagogisti Italiani) lo guardano con deferenza, qualcuno gli bacia la mano e pazienza se ricordano d’averlo visto in tivù come Michelangelo, quand’era Leonardo. Lui, sposato dal 1990 con Silvia Tortora, autrice televisiva e figlia del perseguitato Enzo, non batte ciglio, incassa l’appecoronamento giovanile, sbocconcella un tramezzino e ancora una volta (150 i film girati in 50 anni) funziona, come saggio maestro di violino, mentre, con certi gilet tardo-hippy (una comune la fondò davvero, nei Settanta), distilla parole di disciplina all’allievo Marco (Andrea Lucente), maturando alle prese col bullo Miki (Gabriele Merlonghi, ex-gradasso di suo).
Caro Philippe Leroy, è icona di disciplina, mentre il bullismo avanza. L’ha fatto per i suoi figli?
«Mio figlio Philippe jr., diciassette anni tra nove giorni, pratica la boxe e il karate: per lui non mi preoccupo, né per mia figlia Michelle, tredici anni. Il bullismo è una peste, però. E i giovani hanno bisogno di sicurezza. Di severità. Ma gli insegnanti, ormai, non possono più fare niente».
Se gli insegnanti hanno le mani legate, che cosa possono fare, i giovani, per rafforzarsi dentro e fuori, contro i bulli?
«Devono fare sport. Io li vedo, questi ragazzi, che vogliono imparare il paracadutismo. S’impegnano. Rinunciano alla discoteca: il lancio costa 25 euro e loro li investono in una passione. Appassionandosi, si sentono uomini».
La famiglia non aiuta i ragazzi a crescere?
«I genitori, oggi, non trovano il tempo per dedicarsi ai figli. Anzi, io tra un po’ scappo, perché Silvia lavora tutto il giorno e devo preparare da mangiare a Michelle... Il fatto è che questa gioventù ha il pelo sullo stomaco: sono duri, condannano il mondo intero».
Com’è la sua, di famiglia?
«Tradizionale. Per la famiglia vuol dire rispetto. L’uno per l’altro. E ognuno ha facoltà di pensare come crede. Però, la sera ceniamo tutti insieme».
Nel dopo-terremoto, comunque, s’è vista tanta bella gioventù solidale, corsa in Abruzzo per aiutare...
«È difficile entrare in contatto con i ragazzi: io stesso mi son dovuto adattare al loro modo di essere. Non leggono più e hanno rapporti soltanto tra di loro. Di terremoti, ne so qualcosa anch’io. Mi sono beccato quello di Colfiorito, una scossa mi buttò fuori del letto. E presi a collaborare con la Protezione civile di Carrara. Gente straordinaria! Come i Vigili del fuoco, eccezionali».
Eppure, qualcuno ha trovato il modo di denigrarli...
«Santoro? Ah! Ma perché non c’è andato lui, dai terremotati? È stato solo capace di muovere attacchi ingiusti».
Da uomo di cinema, guarda la tivù?
«Non la guardo più. Non capisco la sistematica cronaca nera. In Italia non c’è un fatto bello, per rincuorare la gente? Ci sono persone perbene, qui».
Quali programmi ha, per il futuro?
«Sarò un vescovo con le palle, nella fiction televisiva Don Matteo. Mi chiameranno Henry, non Eminenza. Un vescovo-operaio, insomma, non un uomo impagliato col crocione sul petto. E ho girato, in francese, Il grande forse, cortometraggio di Marco Tullio Barboni. Lì incontro un tizio, passeggiando col cane lungo l’Appia Antica.
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