CÉLINE INTIMO Viaggio al termine della giornata

In un libro fotografico gli ultimi dieci anni del medico-scrittore, colti nella loro quotidianità: le ore nello studio, le liti con la moglie, i contrasti con i vicini, le visite ai pochi pazienti, i suoi amati cani

nostro inviato a Parigi
L’ultimo domicilio conosciuto è questa casa di Meudon che si affaccia sull’antica route de Gardes del tempo di Napoleone e abbraccia in lontananza l’intera vista di Parigi. Nel 1969 un incendio la devastò, ma tranne qualche ritocco venne ritirata su «com’era, dov’era», gemella degli altri tre padiglioni che la affiancano eretti dal commediografo Eugène Labiche a metà Ottocento sui terreni del duca di Bassano: due piani, un seminterrato con cantina, un giardino in pendenza. Sul cancello d’ingresso non c’è più la doppia insegna che indicava l’attività di medico del suo proprietario, quella di insegnante di danza della moglie, «danza classica e di carattere», ma identico è lo stato di disordine e di abbandono che allora come oggi la accompagna. Dalle finestre del soggiorno un pappagallo ti fissa con aria indifferente, la veranda dietro la cucina è un deposito di poltrone sfondate, sedie, letti, materassi, il verde che la circonda è spelacchiato sul davanti, incolto e rigoglioso sul lato nascosto della casa. Piove, una pioggia rada ma insistente, il cielo è grigio, l’aria fredda, c’è una luce opaca da pomeriggio d’inverno. L’unico segno di vita, oltre il pappagallo che però se ne resta immobile, è l’abbaiare di un cane all’interno, ma non di quei danesi che un tempo erano l’orgoglio del padrone di casa e il terrore dei vicini, ma più probabilmente un cagnetto da compagnia, di quelli da persone sole, anziane, con poca mobilità. Com’è del resto l’unico abitante di questo falansterio ormai troppo grande per una persona sola e malandata, madame Lucette Almanzor di anni 94, vedova del dottor Louis-Ferdinand Destouches, in arte Céline.
Mezzo secolo fa, quando la coppia venne ad abitarci, Meudon era lontana periferia, medio-borghese nella parte alta, proletaria in quella bassa che andava a confrontarsi con Billancourt e gli stabilimenti della Renault, il cuore della classe operaia a cui bisognava risparmiare le sofferenze tacendo, se era il caso, la verità: «Non si può far piangere Billancourt» si giustificava Jean-Paul Sartre a proposito degli orrori, tenuti nascosti, del comunismo... Oggi ci si arriva in venti minuti con il metro veloce che va a Versailles o con il trenino regionale che parte e arriva dalla stazione di Montparnasse... Il colpo d’occhio su Parigi che allora incantò Céline c’è ancora, anche se la città si è dilatata e la sua fisionomia alterata.
In quel luglio 1951 che segna il ritorno in patria, lo scrittore ha 57 anni, ma sembra un vecchio di 70, e artisticamente parlando è un morto che cammina: trionfa l’esistenzialismo, è sulla pista di lancio Françoise Sagan e lui è lo scrittore più odiato di Francia, amnistiato da un tribunale militare grazie a un sotterfugio giuridico... Dalla Danimarca, dove ha vissuto, torna con Lucette, un cane e due gatti. Abita prima presso i suoceri, a Mentone, ma la riviera, il caldo, i parenti non fanno per lui e tempo venti giorni accetta l’offerta di un ricco industriale suo ammiratore, Paul Marteau, che si offre di ospitarlo nella sua bella casa di Neuilly-sur-Seine. Anche qui, la coabitazione è difficile, i gatti rovinano la tappezzeria e rigano i mobili, Céline detesta il lusso, è astemio, non ama le riunioni conviviali... Dopo quindici giorni, saggiamente, i coniugi Marteau levano le tende e vanno in vacanza lasciando all’ospite la casa, una macchina e un autista per cercarne un’altra. Il primo ottobre il circo Céline si installa nel padiglione di Meudon.
Céline à Meudon. Images intimes 1951-1961 (Ramsay, 157 pagine, 29,90 euro) è il resoconto fotografico, quasi un documentario, di quell’ultimo decennio, il ritorno alla ribalta e alla gloria letteraria di uno scrittore maledetto, l’estrema rappresentazione di un emarginato dalla vita, dalla società, una via di mezzo fra un eremita e un clochard, un profeta di sventura e un alienato, un medico dei poveri e un poveraccio... Messe insieme, le immagini, spesso inedite, che lo compongono arricchiscono di nuova luce quelle più note dello stesso periodo quando i fotografi delle agenzie, dei quotidiani e delle riviste specializzate hanno preso a salire sulla collina di Meudon-Bellevue per immortalare «lo scrittore che visse due volte». Perché se in quest’ultime c’è il folklore del personaggio e della messa in scena, la sottolineatura di un’eccentricità giocata all’esterno, in queste c’è invece la quotidianità, il giorno dopo giorno di un’esistenza quasi scarnificata dove tutto è in funzione ormai della scrittura, l’unico modo per isolarsi dal mondo, dimenticare ciò che si è divenuti, rivendicare ciò che si è stati.
Circondata di filo spinato, piena di grossi cani randagi che abbaiano se qualcuno si avvicina al cancello, la casa ha al seminterrato lo studio di Céline nella sua doppia veste di medico e di scrittore, e il letto dove dorme. Al primo piano Lucette ha ricavato la sua camera e organizzato una piccola sala di danza, che poi trasferirà al secondo. La coppia non è di quelle silenziose, e Lucette non è di quelle mogli devote che subiscono senza reagire: lui la chiama urlando, e impreca se lei non risponde, lei gli replica per le rime, il pappagallo Toto si intromette e a sua volta ripete le ingiurie...
Le foto raccontano una decadenza fisica che anno dopo anno prende le caratteristiche di una catastrofe, un corpo che sempre più si incurva, un volto che sempre più si incava, dei panni che sempre più coprono ma non vestono, laceri, sporchi stracci senza una forma... Alle sei del mattino Céline è già in piedi e scrive sino alle nove, quando Lucette si alza e gli porta un tè con un croissant. Poi c’è la lettura dei giornali, con un’attenzione particolare per gli annunci mortuari, «Il Corriere delle Parche» come li ha ribattezzati, il disbrigo della corrispondenza, qualche commissione in paese. A mezzogiorno lui mangia, mentre lei fa lezioni di danza, dalle due alle quattro torna medico per i pochi pazienti che osano avvicinarsi al cancello: cura gratis, ha un tocco speciale per i bambini... Il resto del pomeriggio è dedicato ancora alla scrittura, si cena frugalmente alle sette, si va a letto alle nove. La domenica a volte si riceve qualche amico, lo scrittore Marcel Aymé, l’attrice Arletty...
Nei dieci anni di Meudon Céline scrive Féerie pour une autre fois e Normance, con pochissimo successo, e la «trilogia tedesca» che gli ridarà la fama, cinque libri per qualche migliaio di pagine. La sua scrivania è un tavolo da cucina ingombro di fogli, raccoglitori fissati con delle mollette, penne, matite, su cui il pappagallo del Gabon che non ha una gabbia, e a cui ha insegnato a cantare, si muove indisturbato. ... Con gli anni il passo si fa incerto, l’equilibrio precario, e più di una volta salendo o scendendo nel seminterrato lo scrittore cade, il pappagallo grida, Lucette corre e si dà da fare per rimetterlo in piedi. L’ipertensione arteriosa lo colpisce sempre più di frequente, le emicranie lo spossano, il braccio destro gli si paralizza di continuo. Il 30 giugno del 1961 Céline mette fine al suo ultimo romanzo, Rigodon, e scrive all’amico Roger Nimier e al suo editore Gallimard per dare loro l’annuncio.

Il primo luglio la giornata si annuncia soffocante per il caldo, la respirazione si fa difficile, lui non trova pace, nel pomeriggio la moglie vorrebbe chiamare il medico: «Niente medico, niente punture, niente ospedale» è la risposta. Alle sei del pomeriggio un’emorragia cerebrale se lo porta via. La foto su letto di morte rimanda a una maschera medievale.

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