nostro inviato a Glasgow
Per uscire vivi dalla bolgia di Hampden Park, c’è bisogno di un capitano coraggioso. La Nazionale lo sa e sembra non preoccuparsene affatto. Anzi. Forse perché c’è Fabio Cannavaro, da Napoli, 34 anni suonati, Pallone d’oro uscente, la maglia del Real Madrid sulle spalle e la fortuna di giocare in Spagna «dove il calcio è vera allegria» e non c’è il rischio che un mattino possa accadere quel che è accaduto domenica scorsa, dalle parti di Arezzo. Alla sua età, stasera, Fabio Cannavaro raggiunge un monumento del calcio azzurro, come lui campione del mondo, Dino Zoff fermo a 112 presenze dopo una carriera lunghissima interrotta solo per via degli acciacchi e di quei tiracci da lontano, molto lontano. «Sono fiero di affiancarmi a gente come Zoff» ricorda Cannavaro che con quel ct cominciò la sua grande carriera diventata leggenda nella notte di Berlino, un anno e 4 mesi fa. «È da allora che stiamo pensando a questa partita e a quest’occasione» segnala Fabio Cannavaro con quella faccia d’angelo che i capelli ritti per merito del gel gli rendono più sbarazzina. Non gli tremano certo le gambe e neanche le parole. Forse perché davanti agli occhi c’è un’altra piccola soddisfazione da ritagliarsi nel cielo di Scozia: fare meglio dei campeon di Bearzot che due anni dopo il trionfo di Spagna non riuscirono a trasferirsi in Francia per l’europeo targato Platini.
«Giocare in questo stadio mi esalta, non mi procura alcuna paura, la considero perciò una grande fortuna» racconta convinto Cannavaro e gli si deve credere, credere sulla parola, parola di capitano. Capitano di un gruppo di uomini veri e di una nazionale che non sembra aver chiuso la sua esperienza dopo la marcia trionfale da Duisburg a Berlino. «Sono due anni che inseguiamo questa partita e sono convinto che non la sbaglieremo» è la sua certezza. Cementa la forza di un capitano che diventa un gigante tutte le volte che indossa la casacca azzurra e si mette alla guida dei suoi prodi. Ci sia o no al suo fianco Nesta, ci sia o no Materazzi, ci sia invece, come gli accade Barzagli, il prodotto e il rendimento non cambiano. Un capitano deve parlare così, come fece ad Amburgo, prima dell’Ucraina, quando si ritrovò al fianco proprio Barzagli, il giovanotto toscano che a Palermo annaspa e in Nazionale sembra l’erede di Costacurta. «Dai, andiamoci a divertire» disse Cannavaro prima di incrociare Shevchenko che rimase folgorato anche lui da quella lucida, determinata coppia di sentinelle.
Parlare così non serve magari per Buffon che ha lo sguardo lontano, oltre il profilo di Hampden Park, non serve per Gattuso che ha già lo sguardo truce dei giorni che possono cambiare il destino del calcio italiano. Serve invece se c’è da infondere coraggio a Totò Di Natale che si ritrova al centro della bolgia, lui così piccolo, senza avere dietro le spalle l’esperienza di altre cento battaglie dello stesso tipo. «Sarà un bel casino» dice il napoletano di Udine con quel dono della sintesi che solo i ragazzi cresciuti a Napoli sanno coltivare. Un bel casino da cui togliersi in fretta, con grande determinazione. Nello stile di questa Italia maltrattata ma dura a spezzarsi. «Siamo campioni del mondo e dobbiamo farcela a uscire vivi da questo stadio» indovina Di Natale e forse rammenta i suoi cinque gol, quasi tutti formato escort e perciò ancora più valorizzati, a Kiev la sua doppietta più importante che rimise in traiettoria la qualificazione. «Dobbiamo farcela ad uscire vivi» ripete Di Natale e nessuno di loro, per una volta, pensa ad altro. Timbrare il cartellino della qualificazione, infatti, non comporta alcun riconoscimento economico. Se ne riparlerà, eventualmente, nella prossima estate, all’europeo vero e proprio.
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