Questa è una recensione particolare. Si tratta infatti di un piccolo commento a una recensione fatta da terzi e cioè da Alessandro Baricco, a Stati nervosi di William Davies. Il libro deve essere una bufala pazzesca. Nonostante il curriculum di Davies, subito richiamato da Baricco in questi termini: «l'autore insegna all'University of London e collabora con testate come The Guardian o London review of Books, e insomma è chiaramente iscritto al club degli intelligenti». Beh, insomma come direbbe Baricco, la percentuale di stupidi, come direbbe invece Carlo M. Cipolla, è la medesima tra professori e contadini, tra giornalisti e carpentieri. Vabbè: concediamo pure l'intelligenza per professione. Resta il solito libro che si occupa della recente lotta tra le élite e le masse.
Baricco viene colpito da questa intuizione: «la razionalità è diventata una forma di pensiero unico al servizio del Capitale. Negli ultimi cinquant'anni il neoliberismo ha dato la spallata finale, arruolando i fatti, i numeri, la razionalità nella sacra missione di perseguire il progresso» e bla bla bla. E allora ti cadono le braccia. Perché pensi che Baricco sia una persona colta e pensi pure che si sia fatto convincere da questa bufala. E lo è sicuramente. Perché ha una scuola di scrittura. Perché non ha neanche quell'aria da Strega che pensa al Campiello. Ma quando viene nel tuo campo, l'economia, il liberalismo, beh quando scende sul tuo terreno lo vorresti come sempre lo hai ritenuto: informato. Perché nonostante Baricco non scriva, immagino, per il Guardian o non insegni a Londra, questa «stronzata», come direbbe Di Maio, sul neoliberismo potrebbe non ripeterla a pappagallo. Consiglio, a lui e a noi, la rilettura del Bignami degli austriaci di Eamonn Butler, oppure i testi più divulgativi di Friedman, qualche passaggio per il torinese Ricossa, o Martino, insomma basta che legga un libretto liberale e questa favola del neoliberismo e della razionalità gli verrebbe smontata in un secondo. I liberali odiano questa razionalità deterministica di numeri e modelli (basta Ricossa), pensano che le nostre società non siano e non debbano essere figlie di un piano razionale, ma che sono create da un ordine spontaneo (Hayek e i suoi), credono che il futuro non sia scritto (da Friedman a Taleb) e non ritengono l'opera di pochi eletti fondamentale per il progresso (addirittura uno di loro ritiene che ci sia una mano invisibile).
Ma porca miseria, perché non provare a detestare i liberali conoscendoli? Perché usare quella cavolo di etichetta, neoliberalismo, come la userebbero Paragone o Bagnai, non rendendosi conto che sia proprio una revisione del socialismo, statalista, determinista e pianificatore, quello che ha creato delle élite così sicure di loro stesse da non mettere in discussione la loro presunta razionalità? Le parole, ma anche le etichette sono importanti. I liberali hanno molte colpe. La loro scarsa predisposizione ideologica è il cuore di molti dei loro paradossi interpretativi.
Ma la sinistra italiana potrebbe fare uno sforzo in più per conoscerci meglio? Preferiamo un avversario culturale che sappia cosa siamo, piuttosto che si ostini a sparare su un bersaglio che con noi liberali non ha nulla a che vedere.
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