«Caro Prodi, sull’Irak basta giochi di parole»

«Questa posizione è costitutiva dell’Unione ed era nel programma delle Primarie»

Roberto Scafuri

da Roma

Onorevole Fausto Bertinotti, il ritiro dall’Irak sarà «graduale, programmato e concordato», hanno promesso Prodi, Fassino, D’Alema e Rutelli al presidente iracheno Talabani. L’Unione ci ripensa?
«Non credo proprio. La questione da tempo è approdata a un punto sicuro e fermo, il ritiro immediato delle truppe. Capisco che una scelta del genere abbia incorporato molte sofferenze e che settori di Margherita e Ds si siano considerati vinti. Ogni qualvolta gli Usa sembrano in procinto di ritirarsi prima del fallimento clamoroso in Irak, i moderati dell’Unione ci provano. Provano ad avvolgere la questione in un quadro diplomatico, a ridurre l’impatto politico della nostra parola d’ordine. Ma il ritiro è in-di-scu-ti-bi-le».
Lei ha già detto che Fassino ha «creato inutilmente molta confusione». Ma forse c’è di più: stanno giocando con le parole...
«Si gioca con le parole laddove invece bisognerebbe fare attenzione. Cercano di diluire l’impatto, ma tutti sanno che il ritiro è irrinunciabile. Non c’è possibilità di modificare la scelta già fatta, perché è un punto costitutivo e costruttivo dell’Unione. Prodi l’ha annunciato nel programma delle primarie...».
Una promessa come le altre...
«Guardi: il tema è stato portato avanti dalla sinistra alternativa, ma enorme è stata ed è l’influenza del movimento pacifista, del tavolo della pace, di tutto l’associazionismo cattolico... Dunque è nella natura stessa dell’Unione e della leadership prodiana. Chi ragiona sul terreno diplomatico pensa di poter agganciare il vagone Italia a un convoglio in uscita. Non vogliono vedere le rovine della guerra e pensano di poter influenzare le scelte degli Usa. Ma io penso che non ci sia alcun convoglio in uscita e che sul convoglio accadano fatti intollerabili».
Lei stesso immagina un ritiro degli Usa prima di un nuovo Vietnam.
«Però le esperienze passate invitano a non fidarsi. Tutte le tentazioni di procedere a un’exit strategy sono state soppresse, negli Usa. Che restano forse condizionabili soltanto da una massa critica dell’intero continente europeo».
Il servizio di Rai News 24 sull’utilizzo del fosforo a Falluja ha rafforzato le sue convinzioni?
«Ciò che accade ogni giorno in Irak non consente ripensamenti di sorta: l’uso del fosforo documentato è un orrore. Dimostra che alla guerra si è sostituita la barbarie, che la guerra è una bestia che non si può addomesticare. L’effetto è paradossale: chi è andato in Irak per smantellare armi di distruzioni di massa ha constatato che non c’erano e, al contrario, le sta usando. E qui da noi c’è un silenzio pesante, anche nei mass-media. Ds e Dl dovrebbero farne una battaglia morale, indignarsi assieme a noi, gridare: “Adesso basta!”. Invece neppure partecipano ai sit-in di protesta organizzati per oggi...».
Intanto però il presidente Talabani ha chiesto di non abbandonare l’Irak. Un problema con il quale la sinistra dovrà confrontarsi.
«Certo. Però non dimentichiamo che è la parola di un leader che ha una rappresentanza dimezzata, una sovranità limitata. L’anatra zoppa di un paese in guerra civile: il fatto che non abbia neppure premesso di fermare la guerra ne depotenzia l’attendibilità. Va ascoltato lui, ma andrebbero ascoltate tutte le parti, eccetto i terroristi, che lui non rappresenta. Per questo, continuo a pensare che soltanto una vera Conferenza di pace, sotto l’egida dell’Onu, possa aiutare davvero l’Irak».
Insomma, quelle di Fassino, Prodi D’Alema e C. sono promesse di marinaio al signor Nessuno.
«Non dico questo e ho molto rispetto per Talabani. Capisco pure che se incontri una personalità straniera non gli metti le dita negli occhi».
Formule di cortesia.
«Formule di cortesia, ma non dobbiamo confondere la cortesia con la sostanza».
Qual è la sostanza?
«Che il ritiro è irrinunciabile e che, come ha fatto anche Zapatero, necessita di tempi tecnici».
Discuterete anche su questo.
«Sì, ma non possiamo fasciarci la testa prima. Ora l’importante è non far corrompere l’elemento guida del ritiro con diversità di vedute che esistono, sulle quali ci confronteremo».
Così sarà anche sul ritiro da Afghanistan e Kosovo, altro punto di divergenza.
«Se ognuno sta ai nastri di partenza, la situazione resta bloccata. Occorre ragionare su quelle aree di intervento. Propongo di fare una mappa della situazione per come è evoluta e discuterne. Per giungere a una linea nuova e unitaria dell’Unione».
Presto lei andrà in Cina: parlerà dei diritti umani a Pechino, magari in piazza Tien An Men?
«Con il dovuto rispetto, i problemi che vedo proverò a indicarli. In primo luogo i diritti dei lavoratori».
Arduo esportare il sindacato.
«Cerco di non essere presuntuoso, lei cerchi di non fare lo spiritoso».
A proposito della Cina, viene in mente la Tav in Val di Susa. Non servirebbe a veicolare le merci cinesi?
«L’entità di questo traffico è molto contestata. Mentre è indubbio che sono in gioco nuove politiche di sviluppo sostenibile. Domani faremo una conferenza stampa a Strasburgo, Sinistra europea assieme ai Verdi».
La Tav, ennesimo scontro futuro.
«Ma come si fa a pensare che la questione sia uno scontro tra Bertinotti e Rutelli, tra Pecoraro Scanio e Fassino? In Val di Susa c’è un’intera popolazione che dice no all’alta velocità: inefficace per lo sviluppo, dannosa per l’ambiente. Una questione che investe l’intera pratica della democrazia, altro che i partiti».


Non teme che si stiano ponendo le basi per isolare Prc, così da poterla sostituire alla prima occasione?
«Fino alle elezioni il quadro resterà immutato e queste tendenze sono destinate alla sconfitta. La domanda popolare di unità ha premiato tutti, il collante è la necessità di un cambio di politica. Poi? Poi vedremo».

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