L’ultimo caso risale a poche settimane fa: il National Trust of Scotland, l’ente che tutela il patrimonio culturale scozzese, ha lanciato l’allarme per l’aumento delle strutture turistiche nella cittadina di Harris che spingerà nuove orde di turisti nel paradiso naturalistico dell’arcipelago di St. Kilda, al largo delle isole Ebridi. Da quando, nel 1986, l’Unesco lo ha inserito nella lista dei siti «Patrimonio dell’Umanità», St. Kilda ha visto aumentare l’afflusso di sterline ma soprattutto di «truppe» di visitatori equipaggiati con zaini, scarponi e sacchi a pelo. Per l’equilibrio del delicato ecosistema un rischio superiore ai benefici economici.
In Giappone, invece, ancora non si sono placate le polemiche scatenate dall’inserimento nella prestigiosa lista-Unesco, nel 2007, dopo una pesante attività di lobbying da parte di potenti uomini d’affari locali, delle antiche miniere d’argento di Iwami Ginzan, e ciò benché l’Icomos, l’organismo che gioca un ruolo determinante nella individuazione dei beni culturali considerati patrimonio dell’umanità, avesse dato parere negativo in quanto non ritenute di evidente valore universale. In un anno dalle miniere sono transitati un milione di visitatori, contro i 15mila in media degli anni precedenti, tutti educatamente in fila con i loro cestini da picnic e le macchine fotografiche. La stragrande maggioranza dei quali, però, è rimasta delusa. Quando si è messa in viaggio era probabilmente convinta di andare a vedere le Grandi Piramidi o il Taj Mahal. O Angkor, in Cambogia, il gigantesco complesso monumentale-religioso che tra IX e XV secolo ospitò le capitali dell’Impero Khmer, un gioiello del Sud-est asiatico che fa parte del «World Heritage List» dal 1992. Oggi accoglie due milioni di turisti all’anno, un’orda che ha finito per trasformare la vicina città di Siem Reap in un agglomerato di hotel, ristoranti, aeroporti e negozi... Mentre le millenarie pietre dei templi Khmer sono consumate da milioni di flip-flop e scarpe da trekking. Non è - si è chiesto recentemente con una lunga inchiesta il quotidiano britannico The Independent - che l’Unesco stia in realtà danneggiando i suoi tesori?
Individuare e preservare i capolavori artistici e naturali del pianeta è una nobile missione. Ma in molti casi l’inserimento di un sito nella lista dei luoghi considerati «Patrimonio dell’Umanità» (tenuto conto della spinta all’economia locale) può avere un paradossale effetto controproducente. Il marchio Unesco comporta infatti pericoli imprevisti: devastante turismo di massa, crescita disordinata di strutture, inquinamento, dissesto ambientale, stravolgimento della cultura locale. A questo punto la domanda che ci si pone, in molti casi, è: ma ne valeva la pena? Tanto più che preparare il dossier a supporto della propria candidatura costa alla località richiedente centinaia di miglia di euro.
Poi, c’è lo «scandalo» burocratico: la complessa macchina organizzativa del «World Heritage Center» dell’Unesco macina una quantità inimmaginabile di energie e risorse. Per scegliere i nuovi siti da inserire nella «lista d’oro» lavorano due organismi: l’Icomos e l’Iucn. Quindi una commissione di esperti consegna il risultato all’Unesco, il quale affida la decisione finale al Comitato intergovernativo che rappresenta gli Stati membri, 190 al momento. L’iter dura fra i tre e i quattro anni e a volte porta a scelte incomprensibili, che finiscono per avallare le frequenti accuse rivolte all’Unesco di subire influenze esterne, giochi politici e interessi economici. Nel 2005, ad esempio, tra le «new entry» comparve a sorpresa il «Limes» germanico, la linea di fortificazioni che da Coblenza a Ratisbona nel II secolo dopo Cristo rappresentava il confine orientale dell’Impero romano: una serie discontinua di rovine, spesso ricostruite, «visitate da sporadici appassionati e da mucche al pascolo» - come scrisse all’epoca la prestigiosa rivista tedesca Merkur - la cui protezione costituisce la prova, a detta dello storico dell’arte Wolfgang Kemp, che l’Unesco concede il suo prestigioso sigillo con troppa facilità.
Critiche pesanti, ma tutto sommato inferiori rispetto a quelle suscitate dalla macchina burocratica, per tenere in moto la quale l’Unesco impiega quasi la metà dei fondi. Gli ultimi dati mettono a nudo l’imbarazzante sproporzione tra le spese per l’organizzazione dei programmi e quelle per realizzarli: il «World Heritage Center» usa per sopravvivere il 45% dei fondi. E per tutelare i luoghi che decide di eleggere a Patrimonio dell’Umanità, alla fine non resta molto. Le verifiche di routine sono previste ogni sette anni e le (poche) ispezioni che seguono le denunce di abusi e minacce che coinvolgono i tesori dell’Unesco - scempi edilizi, devastazioni, incuria - rimangono lettera morta. Al più, la località viene «spostata» in una danger list, una lista «d’attesa».
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