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Caso Eluana, ecco il nostro testamento biologico

In discussione al Senato la legge sulla "dichiarazione anticipata di trattamento". Sarà approvata entro l’estate. Duro il confronto fra le parti politiche. Leggi il parere di quattro firme: Vittorio Macioce, Giordano Bruno Guerri, Massimiliano Lussana e Luigi Amicone

Caso Eluana, ecco il nostro testamento biologico

Il caso di Eluana Englaro ha riportato prepotentemente di attualità il dibattito attorno al cosiddetto «testamento biologico» (o Dat, Dichiarazione anticipata di trattamento), ossia il documento con il quale una persona può formulare (in condizioni di perfetta lucidità mentale) la propria volontà in merito alle terapie e alle cure che intende o non intende accettare in caso di malattie terminali, coma irreversibile o lesioni traumatiche cerebrali irreversibili. Attualmente il disegno di legge sul «testamento biologico» è all’esame della commissione Igiene e sanità del Senato. Proprio ieri è tornato sull’argomento anche il presidente della Camera, Gianfranco Fini, il quale ha definito la legge sul testamento biologico «una priorità», dichiarando che sarà approvata entro i tempi previsti, probabilmente entro l’estate perché «c’era e purtroppo c’è un vuoto legislativo che deve essere colmato nel più breve tempo possibile, attraverso una discussione approfondita in Parlamento, scevra da pregiudizi». Come è facilmente immaginabile, sui punti «caldi» del provvedimento - nutrizione e alimentazione forzata, fiduciario, percorso burocratico - il confronto fra le parti politiche sembra destinato a rimanere alto. E viste le profonde e conflittuali implicazioni etiche e morali che presenta il fatto di dovere decidere se mettere fine o no alla propria esistenza nel caso in cui si è colpiti da malattie invalidanti e irreversibili, il Giornale ha chiesto a quattro suoi autorevoli commentatori, di diversa «formazione» religiosa e culturale, come si comporterebbero davanti all’eventualità di dovere scrivere il loro testamento biologico.

STACCATE LA SPINA QUANDO SMETTO DI SOGNARE
di Vittorio Macioce
Staccate la spina appena smetto di sognare. Non voglio diventare un non morto, uno che rimane sul confine, il corpo da una parte, l’anima dall’altra. Quando arrivo alla frontiera fate in modo che la passi, senza passaporti, carte da bollo, burocrazia. Dite a Caronte di portarmi in fretta, senza rimpianti, non è detto che dall’altra parte si stia male. E se c’è il nulla, pazienza. Tanto in quel caso io non ci sarò. Non voglio restare su questa terra con un frammento di vita, un vuoto a perdere, un hardware senza più un sistema operativo. Non voglio vivere in una stanza d’ospedale, con un cuore che batte a vuoto, carne senza sangue. Mi fido di chi mi sta vicino, di quelli che mi conoscono, di chi ha visto qualche volta brillare i miei occhi. Non serve altro. Non servono parole. Non mi dispiace dormire un po’, ma non voglio svegliarmi al buio. Mi fa paura. Non voglio vagare nel limbo, lì dove restano le cose che non riusciamo a perdonarci. E, soprattutto, non voglio rompere le scatole a nessuno. Non voglio che qualcuno guardi le mie piaghe da decubito. Non state lì a immaginare i miei pensieri. Se il coma è irreversibile staccate la spina. Solo un suggerimento: ricordatevi che io arrivo sempre in ritardo. Quindi, aspettate un po’: mesi non anni.
L’ultimo, importante, favore. La mia morte non è un affare di Stato. Non voglio giudici, notai, moralisti, preti, matrix e porte a porte, veline, opinionisti, politici e cantanti, a tracciare i confini della mia vita e della mia morte. Non sono né Guelfo né Ghibellino e come Mercuzio dirò a chi si avvicina: «La peste a tutt’e due le vostre famiglie. Avete fatto carne da vermi di me». Tutto quello che dovete fare, fatelo in fretta. Basta poco, basta uno sguardo di pietà. E una citazione letteraria: aspide o cicuta. Non voglio vedere le mie poche foto sui giornali, e qualcuno che in redazione sentenzia: questa l’abbiamo già messa, meglio quella lì in pantaloncini e con la maglia numero 14». E per il mio testamento biologico scelgo le parole di Totò, ’A livella: «Sti ppagliacciate ’e ffanno sulo ’e vive. Nuje simmo serie, appartenimmo à morte!».

CHIEDERO' L'EUTANASIA, MA NON CRUDELE E FEROCE
di Giordano Bruno Guerri
1) Ho goduto la vita più che ho potuto.
2) Gran parte del godimento è consistito nel viverla il più possibile sciolta da vincoli e limitazioni alla mia libertà: di pensiero, di espressione, di movimento, di realizzazione, di piacere, di lavoro, di amore.
3) Se ho un rimpianto è di non avere saputo sempre sfruttare al meglio la libertà ottenuta: per me e per chi mi è stato vicino.
4) Voglio quindi stabilire - liberamente, in piena coscienza - come si dovrà procedere in caso di mia incapacità di intendere e volere: per il mio bene, per quello di chi amo e per la comunità di cui farò parte.
5) Nel caso fossi ridotto in coma irreversibile e in stato vegetativo, voglio che mi venga praticata l’eutanasia: legalmente, se nel frattempo verrà - come mi auguro - promulgata una legge che la renda possibile; in caso contrario illegalmente, ma con tutta la mia gratitudine, da parte di chi mi vuole bene.
6) L’eutanasia dovrà essere praticata sei mesi dopo la dichiarazione di coma irreversibile e stato vegetativo, perché voglio dare una possibilità al miracolo.
7) In nessun caso voglio che, in quel periodo, sia praticata su di me la prassi giustamente definita «accanimento terapeutico».
8) Poiché l’eutanasia deve intendersi nel significato di «dolce morte», per nessun motivo dovrà essere praticata con mezzi concettualmente crudeli e feroci (quale che sia il parere contrario di medici e legislatori), come la privazione di cibo e acqua.
9) Non voglio funerale, né religioso né laico, e desidero che il mio corpo venga cremato.
10) Dopo avere scritto tanto per tutta la vita, mi viene da sorridere notando che ho chiuso la pratica dell’esistenza in 1800 battute e in dieci comandamenti. Salute e allegria a chi resta.

CARI MEDICI, INSISTETE OLTRE I CONFINI DELLA SCIENZA
di Massimiliano Lussana
Se solo ci fosse una possibilità. Se solo ci fosse una possibilità - una su cento, una su un milione, una su un miliardo - di rispondere a una domanda dell’infinita curiosità di Federico, non staccate niente. Se solo ci fosse una possibilità di riavere una delle dolcissime carezze di Francesco che mi dice che lui non è monello come i suoi fratelli, non staccate niente. Se solo ci fosse una possibilità di rivedere lo sguardo stralunato e il sorriso contagioso di Filippo, non staccate niente. Se solo ci fosse una possibilità di ridere un’altra volta, un’altra volta ancora, con Loredana, di sentirmi accarezzato dal suo sguardo, non staccate niente. Se solo ci fosse la possibilità di regalare una piccola gioia a mamma e papà, non staccate niente.
Cari dottori, il mio testamento biologico è tutto qui: continuate, provate, insistete. Fino a che si può continuare, provare e insistere. Fino ai confini della scienza. E magari anche un filo oltre, magari fino ai confini della speranza di un miracolo.
È vero, mille volte, non una, in ospedale o davanti ai malati del reparto della nonna, ho pensato e ho detto: «Non vorrei mai finire così, preferirei morire prima». Magari l’avete sentito anche voi che mi curate oggi. E, se ci fosse stata una Corte a occuparsi della mia storia, avrebbe trovato cento testimoni, non tre, a dire che io volevo staccare la spina per poter ipotizzare con una dotta disquisizione giuridica che avrei scongiurato di togliermi acqua e nutrizione e farmi morire di fame e di sete.
Rivendico tutto, anche quelle parole. Ma non posso permettermi di rischiare. Se c’è una possibilità di vivere anche un solo secondo in più della mia vita - di viverlo davvero - non voglio rischiare di giocarmela. Per le scommesse, bastano e avanzano i trenta euro che ho appena lasciato alla Snai.

NON LO SCRIVERO', MI FIDO PIU' DEI MIEI CARI
di Luigi Amicone
Io non scriverò il mio testamento biologico. Non lo scriverò, primo, perché nel caso un medico del pronto soccorso dovesse ricevere il mio povero corpo maciullato, morente o comatoso vorrei che il medico facesse in fretta a guardarmi e nel caso a mettermi le mani, il bisturi, i tubi, i sondini e le macchine addosso per tentare di strapparmi alla morte, senza perdere ulteriore tempo in un ennesimo intralcio burocratico (ce ne sono già tanti, anche a causa dell’esistenza dei sindacati ospedalieri e della burocrazia di stato). In secondo luogo non lo scriverò perché nel caso entrassi in uno stato vegetativo permanente o perdessi coscienza o gridassi come una scimmia malata di Alzheimer il mio testamento è che mi fido totalmente del buon senso e della carità cristiana dei miei cari, dei miei amici in generale e dei miei amici medici in particolare. Terzo, non lo scriverò perché in generale non mi fido dello Stato (che è la struttura più variabile e periclitante del nostro vivere insieme, essendo lo Stato non la personificazione dei cittadini, ma, come diceva Machiavelli, il complesso delle posizioni, degli interessi e dell’ideologia dominanti una certa fase storica: e se prendo una fase storica di un Presidente o un Partito che ha come ideale principale lo Stato e, in subordine, la persona, che mi succede? Che mi fanno morire per disidratazione o per camera a gas). Quarto, non lo scriverò perché mi fido in generale degli esseri umani, dei miei simili. È l’unico pegno che ho in questo mondo in cui si nasce e si dura come l’erba del mattino che viene tagliata la sera. Non lo scriverò perché ho questa fiducia fondamentale che spero di comunicare giorno dopo giorno ai miei figli, ai miei amici, ai miei lettori. No, non farò mai, se Dio vuole, nessun gesto formale che appanni questa fiducia fondamentale per scegliere, in direzione contraria a una vita buona, il ripiegamento nel sé autodeterminato.

Che non esiste, che non è mai esistito, che è solo la fola del vuoto di carità e pieno di narcisismo che attraversa questo povero tempo sbandato, preda di un cinismo da vagabondi.

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