Michele Anselmi
da Roma
E il regista che dice? Benché messo un po' in ombra dalla produttrice-star Francesca Neri, il trentaquattrenne Luca Guadagnino sta assaporando il suo momento di gloria. Il cellulare squilla ogni due secondi, tutti lo cercano. E intanto il film, in giro con 311 copie, è già arrivato a oltre 2 milioni e mezzo di euro. Alto e magro, sguardo vivace e battuta lesta, il cineasta siculo-algerino è letteralmente un «malato di cinema» con un'alta considerazione di se stesso. Per questo neanche il brutale giudizio sul film vergato per la prima pagina del Messaggero dalla vera Melissa P. sembra ferirlo. E sì che la scrittrice siciliana l'accusa di «affrontare l'adolescenza in modo piuttosto banale e scontato, a volte direi quasi offensivo», sicché il film sarebbe «pieno zeppo di giudizi e pregiudizi che scadono immancabilmente nella sociologia spicciola».
Guadagnino, come risponde alla signorina Panarello?
«Io la capisco, Melissa. Capisco la prospettiva di una giovane autrice che ha conosciuto il successo tutto in una volta. Lei sente una carnale vicinanza con la materia del libro, non mi meraviglia il suo sentimento di distacco dal film».
Ma vi siete mai parlati?
«L'ho vista due volte in tutto. Per pochi minuti. Quando entrai nel progetto, lei fluttuava nell'iperuranio del mondo letterario. Oggi può dire ciò che vuole, anche che il film sia una manovra mercantile. E però il libro andava “riscritto” per il cinema. Sulla pagina gli eventi sono narrati in modo episodico e casuale, senza una compattezza strutturale».
La trovo molto conciliante.
«Guardi, non c'è bisogno di difendere il film. Lo sta difendendo il pubblico, che ha capito. Io volevo costruire una fiaba, una variazione sul tema di Cappuccetto Rosso. La storia ha un percorso iniziatico, dei simboli che diventano fatti, minacce, alla fine la protagonista vive felice e contenta. Credo nel valore sovversivo delle fiabe e del lieto fine, come diceva Propp».
Però i critici non le hanno creduto. L'Unità, derubricando il film a «boiata pazzesca che fa passare ogni desiderio», chiosa: ridateci Tinto Brass. Per Il Corriere appartiene «alla storia dei film mancati»...
«Riguardo a Tinto Brass, concordo. Penso sia un grandissimo regista che fa film mortiferi, funerei, ma straordinari. Un maestro. Per il resto, penso che lei abbia letto solo alcuni giornali. Antonello Catacchio sul manifesto, Leonardo Jattarelli sul Messaggero, Gregorio Napoli sul Giornale della Sicilia hanno scritto cose bellissime. In ogni caso, mi piace che il film crei dei mixed feelings».
È vero che la Sony produttrice ha imposto due tagli?
«No. Ho subito detto a Francesca che Melissa P. non doveva essere vietato ai minori di 14. È un film per gli adolescenti e sugli adolescenti. Sul fronte dell'esplicitazione sessuale ho già dato (il cortometraggio Qui, su una fellatio, ndr). Quindi le rispondo che io, Francesca e la Sony abbiamo fatto esattamente il film che volevamo fare. Non ho mai vacillato. E i consigli, se sono intelligenti, vanno ascoltati».
Certo un bel passo avanti rispetto a The protagonists. Se non sbaglio incassò 45mila euro in tutto.
«Incassò secondo la media di tanti giovani film italiani. In queste ore non vivo compulsando le tabelle degli incassi. Certo sono felice di questa esplosione gioiosa. Perché il cinema è la mia vita. E magari perché il successo ti dà chance pazzesche».
Arrivata qualche offerta?
«Per ora no. Ma sono fiducioso. Mi reputo un buon cuoco. Un artigiano attento. Il Dalai Lama dice che tutto è forma. Vale anche per il cinema. Bisogna riuscire a dare una forma al vuoto, creando un universo altro dal reale».
Come replica a chi giudica il film «diseducativo»?
«Il film suscita reazioni bizzarre: c'è chi lo trova parrocchiale, chi ultraperverso. Per me, invece, è altamente educativo. Insegna che il dialogo con la parte femminile di sé e la propria madre è essenziale. Sono per il dialogo matrilineare, mi rifaccio al pensiero di Luisa Muraro, grande femminista».
Il complimento più bello?
«Sul Foglio la Mancuso ha scritto che un regista cieco avrebbe fatto meglio. Voleva sfottermi, invece è un sofisticato punto di vista. Quando giro, io metto sempre le spalle al monitor: perché il cinema accade comunque».
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