Catturò il boss Zagaria Lo sbirro anti Saviano ora finisce alla sbarra

Rinviato a giudizio Pisani: per molti è un eroe, ma i pm si fidano del pentito di turno: "È colluso con la camorra"

Catturò il boss Zagaria  Lo sbirro anti Saviano  ora finisce alla sbarra

Più arrestano i capimafia, e più finiscono nei guai. Lo Stato ringrazia così i suoi uomini migliori. È accaduto col generale Mario Mori che scovò il sanguinario corleonese Totò Riina, ed è successo di nuovo col poliziotto Vittorio Pisani che ha catturato i due veri capi del clan dei casalesi, Iovine e Zagaria, introvabili per decenni. Un giudice di Napoli ieri ha creduto al cattivo tagliagole di turno (ovviamente pentito) e ha spedito sotto processo lo «sbirro» buono. Quello che un paio di settimane fa aveva rischiato la pelle arrestando personalmente don Michele Zagaria, alias Capastorta, nei sotterranei di Casapesenna. Da ieri la parola di Vittorio Pisani conta meno di quella del suo ex confidente, il boss di Secondigliano, Salvatore Lo Russo.

Uno di cui non si fidavano nemmeno gli altri camorristi, perché giuravano fosse infame, un doppiogiochista, capace di vendersi il fratello ai carabinieri pur di continuare a gestire il monopolio di droga, estorsioni, calcioscommesse. Un tipo da prendere con le molle, insomma.

La procura antimafia partenopea gli ha creduto autorizzandolo a distillare veleni per ridimensionare l’immagine del giovane Serpico a cui, da infame, vendeva amici, nemici, familiari.
Le carte parlano chiaro. Pisani, vecchia scuola, si è servito del camorrista per fare piazza pulita di quelli che ammazzano e spacciano all’ombra del Vesuvio.

Ha ascoltato le sue soffiate e le ha sfruttate. Ma quando Lo Russo ha capito d’avere il destino segnato, ha iniziato a «mascariarlo» per cercare di rifarsi una vita diversa da quella schifosa in cui ha sguazzato fino a un paio di anni fa, quando o’ capitone (anche così lo chiamano amici e nemici) pensava di essere ancora il San Gennaro della camorra.

L’ultimo miracolo che gli è riuscito è stato il peggiore di tutti: trasformare un eroe (perché questo è Vittorio Pisani per i poliziotti e la gente perbene di Napoli) in un reietto, un bandito, un corrotto. Ha detto di avergli dato soldi e regali e di aver ottenuto in cambio pochi guai giudiziari per sé e per i suoi. Niente di più falso. Sembra di rivivere la stessa (brutta) storia vissuta da un altro «sbirro» di prim’ordine, quel Bruno Contrada arrestato il 24 dicembre del 1992 con l’infamante accusa di aver collaborato con l’Antistato.

Mai un’accusa venne riscontrata, allora (come ora) bastavano i pentiti. E come per Contrada anche per Pisani l’onta giudiziaria è arrivata l’antivigilia di Natale: manette per Contrada, rinvio a giudizio per lui. Corsi e ricorsi di una giustizia ingiusta. Pisani paga il successo e l’invidia che si porta appresso. Paga per aver detto che lo scrittore Roberto Saviano, oggi coraggiosamente in prima linea contro la grammatica, non correva rischi tali che giustificassero una scorta da capo di stato. Paga per l’«insolenza» di aver stanato il superlatitante Zagaria a pochi passi dalla provincia napoletana dove i giudici e i pm antimafia - quegli stessi che hanno gonfiato il petto in tv per la cattura di Capastorta - gli avevano ordinato di non mettere più piede. Invece di rendergli l’onore delle armi, i pm lo hanno rimproverato a mezzo stampa per la troppa esposizione mediatica.

Il 24 gennaio tutto questo non significherà più niente.

Pisani dovrà rispondere, davanti alla settima sezione del Tribunale di Napoli, di rivelazione di segreto, favoreggiamento, abuso d’ufficio e falso. Teste d’accusa: ’o capitone. L’infame. Il bugiardo. Quello che per salvare se stesso ha tradito il fratello di sangue e poi il confessore in divisa.
(ha collaborato Simone Di Meo)

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