Le stelle dell’Orsa sono proprio come le immaginava Giacomo Leopardi: vaghe. Che si tratti dell’Orsa maggiore oppure dell’Orsa minore, non cambia nulla: sempre vaghe sono. Cioè poche, poco definite e poco luminose. Contorni incerti, colori spenti. Fidatevi: ci sono stato, le ho viste da vicino. In due secondi ho percorso, più o meno, 700.000 miliardi di chilometri. Ma con tre giri di rotellina sul mouse del computer mi sono spinto ben oltre, fino ad arrivare su Polaris, una stella dell’Orsa minore che dista 431 anni luce dalla Terra. Essendo l’anno luce l’unità di misura astronomica corrispondente alla distanza che la luce percorre in un anno, vale a dire 9.461 miliardi di chilometri, fate voi la moltiplicazione e contate quanti zeri vi sono venuti. Io mi sono perso.
Alberto Conti, lo scienziato che ha reso possibile il fantastico viaggio, dice che la vaghezza dipende dalla direzione in cui si volge lo sguardo sulla volta celeste. Perciò ho puntato al centro della nostra galassia, verso la costellazione del Cancro, e lì ho trovato Praesepe, circa 577 anni luce dalla Terra, un ammasso di migliaia di stelle ben distinguibili (ma il povero Galileo Galilei, con i mezzi dell’epoca, riuscì a contarne appena 36) che fa onore al proprio nome. Infatti sembra l’albero di Natale. Un tripudio di luci.
Conti, 41 anni, è l’italiano che da due mesi sta facendo vedere le stelle a tutti. L’artefice di un evento unico nella storia dell’umanità: un gigantesco telescopio virtuale che permette agli utenti di navigare nello spazio e visionare oltre 100 milioni di oggetti celesti e 200 milioni di galassie. Ha inventato Google Sky, una nuova funzione inserita nella versione 4.2 di Google Earth, il famoso programma gratuito messo a disposizione dal motore di ricerca più usato nel mondo (scaricabile in Internet all’indirizzo http://earth.google.com/intl/it/sky/skyedu.html). Il principio del servizio è sempre lo stesso: la mappatura satellitare dell’universo. Solo che stavolta non si vola da Milano a Melbourne, piuttosto che da New York a Pechino. Basta cliccare un’icona di Saturno nella barra dei comandi di Google Earth e si viaggia negli spazi interstellari.
Il fisico e astronomo Alberto Conti è uno dei tanti cervelli costretti a emigrare negli Stati Uniti per mancanza di prospettive professionali nel nostro Paese. S’è formato all’Università di Trieste, dove ha avuto per insegnante l’astrofisica Margherita Hack («grandissima scienziata; per il resto, no comment»). Oggi lavora allo Space telescope science institute di Baltimora, nel Maryland, che gestisce per conto della Nasa il telescopio Hubble, lanciato dalla navetta spaziale Discovery nel 1990, in orbita attorno alla Terra a 600 chilometri d’altezza. Come manager della Community missions office, la divisione che si occupa di tecnologie avanzate, Conti ha sottoposto l’idea del telescopio su computer a Google. Vista e piaciuta. Sono occorsi quasi due anni di lavoro per realizzarla e renderla accessibile al grande pubblico.
Conti è nato a Palmanova, in Friuli. Il padre Lodovico è un ex imprenditore in pensione, collezionista d’arte, che abita a Conegliano (Treviso) in una casa con i muri coperti da ritratti di Rubens e vedute del Guardi al posto della tappezzeria. Alberto prometteva bene già da bambino. Il suo primo telescopio lo ebbe nel 1978, a 12 anni. Doveva essere il regalo di Natale. Ma, poiché il 14 dicembre il calendario segnava luna piena, quella stessa notte verso le 23 il papà fu costretto a portare marmocchio e attrezzo in mezzo ai prati in località Le Laite, sull’altopiano di Asiago. E lì, nell’oscurità, una provvidenziale grappetta rimasta allo stato liquido nonostante i 10 sottozero salvò padre e figlio da sicuro congelamento.
Lei che propone un’idea a quelli di Google anziché viceversa. Già questa è una notizia.
«Così è andata. Da noi lavorano 62 astronomi. Abbiamo necessità di finanziamenti per progredire in varie direzioni, incluso il programma del presidente Bush che entro il 2015 intende riportare gli astronauti americani sulla Luna col vettore Ariete 5. Fra i miei compiti c’è anche quello di creare nuovi business legati al telescopio spaziale Hubble. Quindi i contatti con giganti come Microsoft, Google o Honeywell sono frequenti».
Mi racconti com’è andata.
«Nell’ottobre di due anni fa mi trovavo a San Lorenzo de El Escorial, in Spagna, per l’annuale conferenza dell’Adass, l’Astronomical data analysis software and systems. E lì ho visto per la prima volta in funzione Google Earth, il software che permette il tour della Terra utilizzando immagini satellitari e fotografie aeree. Ci ho giocato per sei ore di fila. Alla fine mi sono detto: perché non fare Google Sky per visitare anche lo spazio?».
Una parola.
«A gennaio 2006 ho scritto una mail a John Hanke, il direttore di Google per le sezioni Earth e Maps, che mi ha messo in contatto con lo sviluppatore del software. Siamo stati al telefono due ore. Alla fine ha concluso: “Molto interessante”. Per loro l’idea di poter sfruttare Hubble, uno strumento che è costato due miliardi di dollari, aveva un fascino irresistibile».
Lo credo.
«I due telescopi più grandi del mondo, gemelli, si trovano su un vulcano spento di 4.200 metri, il Mauna Kea, alle Hawaii. Però Hubble è satellitare, lavora sopra l’atmosfera, come Spitzer, Cobe e Compton, tutti controllati dalla Nasa, e quindi le immagini che trasmette a terra risulta di una definizione incomparabile».
Come si accede a Hubble?
«La Nasa invia al mio istituto le richieste provenienti da scienziati di tutto il mondo che vogliono scrutare in questa o in quella direzione. Dieci tecnici, addetti al programma di puntamento del telescopio, provvedono a soddisfarle. Google Sky è stato concepito con la mia collega Carol Christian proprio per divulgare cognizioni scientifiche sull’astronomia. I planetari non offrono immagini reali della sfera celeste. Invece noi abbiamo messo a disposizione uno strumento che consente a chiunque, come se stesse usando Hubble, di perlustrare lo spazio cosmico. Esempio: i miei genitori scelgono Conegliano su Google Earth, poi cliccano sul bottone di Sky e vedono esattamente gli 80 e passa gradi di cielo che sovrastano le loro teste. Ma possono anche selezionare Città del Capo e osservare la volta celeste dell’emisfero australe».
E Google che ci guadagna?
«Niente. In termini di popolarità, tantissimo. Sono stato tre volte da loro a Mountain View, in California. Nell’ultimo meeting c’era un manipolo di premi Nobel. I fondatori Larry Page e Sergey Brin hanno voluto conoscermi. Ci sono state tensioni inevitabili. Io ero interessato all’accuratezza dei dati scientifici, loro allo sviluppo di un software di massa. Ho dovuto contrattare per due mesi affinché fosse messo nero su bianco il divieto assoluto di pubblicità su Google Sky. Non volevo che un domani gli saltasse in mente di far sponsorizzare gli astri a qualche azienda».
Quante immagini del cielo avete fornito?
«Milioni e milioni. Ma si tratta solo di 10 terabyte di dati trasformati in mappe su una griglia sferica. Google genera 14 livelli di zoom per ogni immagine di ciascuna area del cielo».
Arrivo a malapena ai gigabyte.
«Un terabyte equivale a 1.000 giga. Un buon personal computer ha un disco fisso di 200 giga. Già ora servono tre settimane di lavoro dei potentissimi server di Google per processare l’intera volta celeste. Contiamo di riversare in Sky il nostro archivio, che è di 35 terabyte, e poi di aggiornare il programma con nuove immagini ogni sei mesi».
Alla fine mancherà sempre qualcosa.
«Per forza. Esistono circa 100 miliardi di galassie e si calcola che ognuna di esse sia formata in media da 200 miliardi di stelle. La Via lattea, cioè la nostra galassia, ne conta 200 miliardi. Ci sono più stelle nell’universo che granelli di sabbia su tutte le spiagge della Terra. Ogni giorno tante ne nascono e tante ne muoiono».
Nell’Orsa ho visto indicazioni strane: «bolla nel corpo di una galassia», «galassia neonata», «un’altra collisione cosmica». Che significano?
«Le stelle esplodono, spostano masse di gas. Metta di vedere una deflagrazione sott’acqua: miliardi di bollicine che poi scompaiono. Nella nomenclatura scientifica la stella più luminosa, Sirio, diventa una misterica Alpha Cma oppure 9 Cma. Ecco perché abbiamo preferito aggiungere delle didascalie che incuriosiscano».
Ma perché in talune porzioni di volta celeste Google Sky fa vedere meno stelle che in altre?
«Abbiamo puntato Hubble per 500 ore, tre settimane appena, su una porzione di cielo che non si può raggiungere con altri telescopi e dove sono visibili alcune migliaia dei 100 miliardi di galassie esistenti. Un niente. Stiamo parlando di stelle che si stavano formando quando l’universo aveva due o tre miliardi di anni. Quindi, poiché adesso l’universo ha 13,7 miliardi di anni, Sky ce lo mostra com’era 10 miliardi di anni fa».
Più ore di osservazione con Hubble equivalgono a più corpi celesti scoperti e fotografati, ho capito bene?
«Sì. È come se lei tenesse aperto in piena notte l’otturatore della macchina fotografica: più ore passano e più luci rimangono impresse sulla pellicola. Vuol sapere quanto è grande quella parte di cosmo dove ha “guardato” Hubble? Prenda fra pollice e indice un centesimo di euro e allunghi il braccio verso il cielo: ecco, la circonferenza della monetina corrisponde al pezzo di universo investigato».
Ma la stella più vicina qual è?
«La Proxima Centauri. Si trova a 4,22 anni luce dalla Terra, pari a 40.000 miliardi di chilometri, una distanza 270.000 volte maggiore di quella del Sole, che dista dal nostro pianeta circa 150 milioni di chilometri. Ora se lei considera che la luce del Sole c’impiega otto minuti ad arrivare sulla Terra...».
Stiamo sulle distanze. Perché è finito a 7.000 chilometri da casa?
«Dopo la laurea a Trieste, ho lavorato quasi gratis per un anno nella Scuola internazionale di studi superiori avanzati a Duino. Finché non mi è stato detto: “Non ci sono più fondi”. Allora ho presentato domanda all’Università del Kansas: il mio progetto s’è classificato primo. Con un’altra borsa di studio mi sono poi trasferito all’Ohio State University per un dottorato di ricerca durato quattro anni. Ho studiato la formazione delle galassie con scienziati al top. Quindi il posdottorato all’Università di Pittsburgh e l’assunzione allo Space telescope science institute nel gennaio 2003».
Si sente come gli emigranti veneti che andavano a cercare fortuna «in Merica»?
«Un pochettino sì. Alla fine dell’Ottocento erano braccia, oggi sono cervelli».
La selezione come avviene?
«Solo per merito. Prendono i più bravi perché hanno maggiori probabilità, con le loro ricerche, di strappare finanziamenti alle industrie private e alle istituzioni filantropiche, senza le quali le università non vivrebbero. In Italia è l’esatto contrario: il barone teme d’essere scavalcato e si appropria dei meriti degli allievi. Un sistema marcio. Negli Usa arrivano i denari solo se hai le idee giuste. Nel Belpaese solo se conosci qualcuno. Fosse dipeso dal mio relatore di tesi di laurea a Trieste, io non avrei mai fatto ricerca».
Come le sembra l’Italia quando ci torna?
«Sbarco a Fiumicino e mi arrabbio subito: nessuno che si metta in fila. Mi fa tristezza. Non c’è senso civico».
Ma non ne ha nostalgia?
«Certo che ce l’ho. Ma che cosa potrei fare di utile nel mio Paese? Nulla, non c’è nulla che potrei fare in Italia. Invece nel Maryland sto facendo esattamente quello che volevo fare. Anche se, per servire la scienza in qualsiasi parte del mondo, devi estraniarti, rinunciare alle piacevolezze della vita. È una missione che richiede uno spirito monacale».
Che cosa prova quando osserva le stelle?
«Umiltà».
Ce ne pioverà addosso qualcuna, prima o poi?
«No, troppo lontane. L’universo è pieno di tante cose. La cosa di cui è più pieno è lo spazio vuoto».
Eppure ogni tanto si leggono notizie allarmistiche.
«La caduta degli asteroidi? Anche se gli spezzoni di zuppa primordiale del sistema solare sono tanti, le probabilità d’impatto appaiono bassissime. E comunque è inutile darsi tanto pensiero: a 70.000 chilometri al secondo di velocità, un affarino del diametro di tre chilometri provocherebbe un’estinzione di massa sulla Terra».
Com’è nato l’universo?
«Col big bang. Una grande esplosione, un evento difficile da spiegare. Spazio e tempo a un certo punto si sono interlacciati. Quando non c’era lo spazio, non c’era neanche il tempo. Il satellite Cobe ha misurato l’eco di calore del big bang. Passati 13,7 miliardi di anni, è piuttosto tenue. La temperatura dell’universo è di circa un grado superiore allo zero assoluto, che corrisponde a meno 272,5 gradi. Allo zero assoluto le molecole smettono di muoversi, non c’è più energia, tutti i sistemi finiscono».
Il big bang è la teoria migliore anche per padre José Gabriel Funes, direttore della Specola vaticana, l’osservatorio voluto da Leone XIII. Conciliabile con l’esistenza di Dio, sostiene il gesuita astronomo.
«Come scienziato non vedo nessuna prova che dimostri l’esistenza di Dio in nessuna delle religioni del pianeta. Sono ateo. Credere che ci sia un Dio che abbia interesse alla pochezza di quello che fanno gli uomini...».
Pensa che ci siano altre forme di vita organizzata nello spazio?
«Sì, non ho dubbi. Basta fare un calcolo probabilistico per rendersene conto. Sarebbe davvero un peccato se non fosse così».
Le missioni spaziali servono?
«Alla voglia di scoprire. Sono parte della nostra evoluzione. Siamo animali curiosi.
Senza riuscirci.
«Ci rifiutiamo di credere che siamo qui per caso. È molto più facile credere che in tutto questo ci sia uno scopo».
(396. Continua)
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