Politica

La Cgil che torna al passato

Sveglia! La maschera è caduta. È necessario averne piena e netta consapevolezza. Dopo il sì (il sissignore) di Romano Prodi a Guglielmo Epifani e alle ferree conclusioni del Congresso della Cgil, non c'è più bisogno di decrittare le truffaldine elucubrazioni della sinistra sulla politica economica e sociale. Il vero programma è quello della Cgil e il disegno che lo regge è quello politico, rigido e militaresco, della Confederazione sindacale militante della sinistra.
Questo disegno è assolutamente antitetico non soltanto a quello della Casa delle libertà, ma alle esigenze fondamentali dell'economia e della società italiana. Esso indica perentoriamente un inflessibile ritorno al passato che non lascia scampo ad alcuna possibilità di rilancio dell'economia italiana. Non solo, ma corrisponde a un modello di economia e di società che, come ha detto con i toni più soft sabato al Forex il nuovo governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, vede l'economia italiana come «insabbiata» dall'inizio degli anni Novanta: Novanta, si badi.
Bisogna dunque sapere bene che sono in gioco due modelli alternativi di economia e società, quindi due tipi di futuro altrettanto alternativi. In sostanza, quello della sinistra-Cgil non soltanto guarda al passato, ma corre sempre più velocemente, diremmo disperatamente, verso un regime di rigidità e di centralizzazione del sistema. Vedi al riguardo la questione basilare dei contratti e la risposta sprezzante a Pezzotta (che pure ha il cuore a sinistra) sul decentramento salariale per la flessibilità e la produttività: adesso bisogna dare un scossa, non disturbare il manovratore! Non c'è da stupirsi che persino la Confindustria ne sia stata fortemente delusa e auspichi finalmente (speriamo nettamente) scelte nette.
Si veda la proposta di un nuovo «patto sociale» per il fisco e il welfare, capace (?) di reperire risorse da destinare appunto agli investimenti, all'istruzione e al welfare. Come? Semplicemente escludendo i «due tempi», prima il risanamento e poi il resto: un programma che sia portato avanti dal sindacato come vero soggetto politico. Questo significa evidentemente una politica fiscale diametralmente opposta a quella del centrodestra, basata sulla riduzione strutturale delle aliquote tributarie per dare spazio all'iniziativa, rafforzare gli incentivi economici nel senso della concorrenza, del mercato, della produttività e della competitività, ampliando l'area di libertà e di «sussidiarietà» dei cittadini e della società civile.
Questo è proprio ciò che richiede con urgenza il mondo globalizzato di oggi e di domani. Ciò che insomma è indispensabile alla crescita duratura. La scelta di Prodi-Epifani è invece quella della stretta fiscale simultanea, basata sul principio della più antiquata progressività delle imposte indirette, basata sul «chi più ha, più paghi», a parte le stangate patrimoniali. (Principio, fra l'altro, già contestato molti anni fa da un grande economista laburista come Lord Kaldor).
Poi, sullo sfondo ma non tanto, c'è la questione della «concertazione», che sta tanto a cuore, anche per ragioni teoriche, al Presidente Ciampi: uno strumento che ha svolto certamente la sua funzione proprio dagli inizi degli anni Novanta. Da quando, appunto, l'economia italiana si è «come insabbiata» e l'ombra lunga di un declino non ineluttabile ha incominciato a stendersi su di noi. Ma adesso, come ha detto Draghi, il tempo si fa breve.
E proprio adesso qualche forma anche più rigida di concertazione viene necessariamente presupposta nel programma «militare» di Prodi-Epifani. Perché il vero programma della sinistra è semplicemente un vetusto e irresponsabile modello «post-socialista» che ha bisogno del massimo di centralizzazione: di fatto una retrograda e esacerbata forma di «socialismo reale» nel mondo globalizzato dal quale ci allontanerebbe sempre di più, che davvero ci riserverebbe soltanto miseria ed emarginazione, colonizzazione e, al massimo, «cibo e turismo» (come dicono elegantemente le grandi banche d'affari internazionali).
Pensiamoci bene prima. La scelta è netta: o di qua o di là.

Per generazioni.

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