La sinistra onora solo chi trasgredisce

Il caso di Carlo Legrottaglie è emblematico. Era un professionista della sicurezza, impegnato in un'operazione antirapina all'alba di un giorno qualunque ma che era per lui anche un giorno speciale, l'ultimo prima delle ferie, a cui sarebbe seguito il pensionamento

La sinistra onora solo chi trasgredisce

Caro Direttore Feltri,

perché la sinistra resta muta quando muore un uomo in divisa? Le scrivo con indignazione. Ieri un carabiniere, il brigadiere capo Carlo Legrottaglie, di 59 anni, originario di Ostuni, prossimo alla pensione, è stato ucciso durante un inseguimento in provincia di Brindisi, proprio sul finire del suo turno di lavoro, dopo più di 33 anni di servizio, lasciando una moglie e due figlie quindicenni.

Eppure, silenzio. Nessuna fiaccolata, nessuna intervista alla moglie, nessuna lacrima in prima serata. Quando muore un criminale, invece, il cordoglio è unanime. Si incendiano quartieri, si danno microfoni ai familiari, si piange sul destino del povero ragazzo.

Ma per chi rischia la vita ogni giorno per proteggerci, niente. Perché? Perché chi indossa una divisa viene trattato come un nemico? Perché i colpevoli

vengono santificati e i tutori della legge messi alla gogna? La prego, ci aiuti a capire.

Simone Comi

Caro Simone,

quando muore un carabiniere in servizio, in Italia, si gira lo sguardo dall'altra parte. Si cambia canale. Si tace. Perché la sua morte è scomoda, troppo scomoda. E perché mai? Poiché essa rompe la narrazione tossica secondo cui le forze dell'ordine sarebbero il male, il braccio brutale di un potere da abbattere, e i delinquenti, di contro, dei poveri cristi da compatire, immigrati che non abbiamo saputo e voluto integrare, persone disperate che non hanno potuto fare a meno di delinquere, incompresi, ultimi da aiutare, perseguitati.

Il caso di Carlo Legrottaglie è emblematico. Era un professionista della sicurezza, impegnato in un'operazione antirapina all'alba di un giorno qualunque ma che era per lui anche un giorno speciale, l'ultimo prima delle ferie, a cui sarebbe seguito il pensionamento. Carlo, ben cosciente di rischiare la pelle ma intenzionato ad adempiere ai suoi doveri, ha saputo reagire allo speronamento, inseguire a piedi uno dei rapinatori e rispondere al fuoco: un gesto d'onore fino all'ultimo respiro. Eppure, in un'Italia che celebra le lacrime per un rapinatore caduto nonché i familiari di questi alla stregua di vittime dello Stato o della giustizia e celebra pure gli scontri nei quartieri per la morte di un individuo che fondamentalmente se l'è andata a cercare non fermandosi all'alt dei carabinieri, il sacrificio di uno che indossa la divisa non fa notizia. Il patriottismo è diventato subalterno a una cultura garantista squilibrata e distorta, che, da un lato, criminalizza la legittima difesa di chi

protegge e, dall'altro, santifica chi offende. Anzi, diciamolo pure, il patriottismo oggi è persino reato. Invece non è reato forzare un posto di blocco, rapinare, borseggiare, a patto che chi lo faccia sia rom o comunque non italiano.

È lo stesso meccanismo tossico che abbiamo visto qualche mese fa nel quartiere Corvetto a Milano, con le rivolte scatenate dalla morte di Ramy e un'area metropolitana messa a ferro e fuoco dalla sua comunità, con il sostegno - è bene specificarlo - di opinionisti, politici, giornalisti, intellettuali che hanno descritto Ramy quale vittima e i carabinieri quali assassini, pur non avendolo nemmeno sfiorato.

Pietismo per un delinquente e nessuna corsa in piazza quando a cadere è un servitore dello Stato. Non hai torto. È la stessa cultura morbosa che, invece di ringraziare, insulta e delegittima poliziotti e carabinieri.

Attenzione, non osanno la divisa in modo acritico: poliziotti e carabinieri non sono intoccabili. Anch'essi possono sbagliare. Ma la criminalizzazione di una categoria intera, compiuta a prescindere, è un peccato civile. Sarebbe stato doveroso che la sinistra esprimesse comprensione, cordoglio, rispetto, marciasse ora per il carabiniere, come ha fatto per chi stava dalla parte opposta, anziché restare in silenzio e con le braccia conserte.

Ma io lo dico forte: grazie ai nostri carabinieri, grazie ai poliziotti, grazie agli agenti della penitenziaria, ai finanzieri, ai militari, ai vigili. A tutti quelli che, ogni

giorno, ci difendono ponendo loro stessi in pericolo. Essi non hanno bisogno di essere compatiti e nemmeno venerati, però hanno bisogno di un elemento essenziale: di rispetto. Oltre che di quella gratitudine che mai manifestiamo loro. La stessa che il Paese, quando era sano, lustri addietro, riservava ai suoi eroi, oggigiorno bistrattati.

Questo non è un mero esercizio retorico. È un atto di verità e di moralità. È una esortazione alla responsabilità civile. E se il nostro Paese vuole davvero pacificare i cuori, anziché aizzarli alla guerra e all'odio per ideologia, deve ripartire da qui.

Il trapasso in servizio dei nostri agenti è un evento che deve scuoterci dalle fondamenta e percuoterci, ma l'effetto mediatico mai è proporzionato al dolore che questa ferita produce all'anima della nostra Repubblica. Perché dimenticare certe morti? Perché non imputare cordoglio a chi ci garantisce e custodisce la nostra libertà?

Mi rendo conto che si tratta di una scelta culturale, è una scelta precisa quella di ignorare i nostri custodi e di

applaudire soltanto a chi trasgredisce.

Serve un cambio di paradigma. Con la massima urgenza. Serve dare dignità agli eroi, rispetto alla memoria, consapevolezza a chi governa le coscienze televisive e culturali del Paese.

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